Regia di Sam Mendes vedi scheda film
Smarrimenti esistenziali di un uomo di mezza età, in rotta con la famiglia e il lavoro. Sam Mendes, al suo esordio hollywoodiano, entra di diritto nella categoria dei sopravvalutati allestendo un campionario di tutti i luoghi comuni sui quarantenni in crisi e dandogli un titolo (fin troppo) evocativo: mezzi perfetti per ottenere la complicità del pubblico e per vellicare la critica, che infatti hanno risposto entrambi positivamente. Ma è un film a cui tutto sommato voglio bene, se non altro perché so dire con precisione cosa c’è che non va: 1) Il personaggio di Kevin Spacey (peraltro ottimo interprete, come sempre) non ha coerenza psicologica. La molla che fa scattare tutto è il suo invaghimento per una maliziosa minorenne, ma poi l’obiettivo viene perso di vista: fra spinelli, esercizi in palestra, lavoro al fast food e musica rock, quando si ritrova a tu per tu con la suddetta minorenne che pare voglia dargliela (a proposito: Mena Suvari vergine?! non ci crederei neanche davanti a dieci certificati medici) è ormai diventato un uomo tanto diverso da rifiutare l’offerta; ma i motivi di questo suo cambiamento restano inspiegati. 2) I personaggi di Thora Birch e Wes Bentley, che con la loro purezza dovrebbero fare da contraltare al marciume degli adulti, finiscono per risultare melensi (anche se si deve a loro il momento più toccante: quello in cui lui ignora l’esibizionismo della biondona alla finestra e inquadra lo specchio riflettente il viso di lei che sorride di nascosto); e la conclusione con il sacchetto portato dal vento è un insopportabile svolazzo (appunto) poetico. 3) I personaggi di Annette Bening e Chris Cooper sono banali, tanto caratterizzati da sembrare caricaturali: fanno tutto ciò che ci si aspetta da loro, senza riservare la minima sorpresa.
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