Regia di Sam Mendes vedi scheda film
American Beauty fa il suo debutto il 15 settembre 1999 in una manciata di sale tra Los Angeles e New York, solo qualche giorno più tardi riceve il People Choice Award al Festival di Toronto, il primo di una lunga serie di premi (tra cui anche 3 Golden Globe e 3 SAG Awards) che ne alimenteranno il successo fino alla consacrazione definitiva con la Accademy Awards con 8 candidature e la vittoria di 5 Oscar (come Miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura originale e per la fotografia) che lanciano immediatamente nell’olimpo di Hollywood il suo regista, Sam Mendes.
Ma prima ancora di Mendes dietro ad American Beauty c’é soprattutto la sceneggiatura scritta da Alan Ball, commediografo e sceneggiatore (in TV) della sitcom Cybill e, soprattutto, creatore della pluripremiata Six Feet Under, il cui copione viene acquistato dalla Dreamworks di Steven Spielberg che affida la regia a un suo protegè, l’esordiente Sam Mendes.
Brillante regista teatrale, e reduce del successo ottenuto a Brodway con Blue Room, Sam Mendes debutta quindi al cinema con un film di enorme successo (130 milioni di dollari al Box Office USA), ironico e divertente per quanto anche amaro, e (per alcuni) fintamente trasgressivo con il quale espone al pubblico del mondo il disagio, la solitudine e il vuoto della società contemporanea.
“Mi chiamo lester Burnham. Questo e il mio quartiere. Questa é la mia strada. Questa é la mia vita. Ho quarantadue anni: fra meno di un anno sarò morto”
Con queste parole dal sapore molto (volutamente) wilderiano inizia una tragedia dei tempi moderni, storia di ordinaria follia (americana) e grottesca commedia degli eccessi, che attraverso un’opera che non manca di luoghi comuni cerca di riscrivere una satira sul perbenismo e un saggio sulla falsità dei costumi borghesi della società americana.
Non é certo la prima volta che il cinema hollywoodiano sfrutta il malessere della famiglia borghese americana (da Gente Comune a La Guerra dei Roses fino a Tempesta di Ghiaccio, per fare qualche esempio) ma American Beauty (nome di una rosa molto diffusa negli Stati Uniti), grazie anche una sceneggiatura lucida e impietosa, miscela insieme il dramma e la commedia, tra momenti di emozione e cinico umorismo, per una pellicola dal forte impatto visivo, grazie alla fotografia di Conrad Hill e all’uso simbolico della luce e dei colori, e a una magnifica squadra di attori perfettamente integrati nella drammatica conseguenza di una vita all’insegna della repressione e dell’apparenza, come chiusi in una gabbia di rispettabilità sociale ma profondamente infelice.
Ma la storia scritta da Ball parla soprattutto di bellezza.
Inaspettata, perduta ma sempre presente nelle esistenze complicate dei suoi protagonisti, nonostante le incombenze della quotidianità, con ancora la passione per la vita ma che, lottando contro le ossessioni dell’apparenza, devono ancora trovare la propria spesso ingannevole strada tra ciò che é vero e ciò che sono veramente.
Strano e meditativo, American Beauty é soprattutto un melodramma e propria di questo genere si rivela un ibrido con la capacità di mischiare le carte in tavola che a partire dall’omaggio alla Lolita di Stanley Kubrik (lo stesso nome del protagonista Lester Burnham é l’anagramma di Humbert Learns) “deraglia” consapevolmente verso un pietismo etico-culturale che é figlio di un irrisolto compromesso sociale.
Un pietismo che, a parte il protagonista che improvvisamente si risveglia da un torpore esistenziale che in realtà si é auto-inflitto, viene mostrato seppur in maniera diversa da qualsiasi altro personaggio, nascosti dietro a una maschera di ipocrisia e paure.
Cercando di presentarsi sempre diversamente da ciò che si é veramente.
Ma a colpire è anche (e soprattutto) la bravure del cast con al centro della scena un sensazionale Kevin Spacey, giustamente premiato con l’Oscar nell’impersonare il capofamiglia Lester Burnham (un nome non a caso, come detto, ma anche con Ham che in gergo americano si intende un attore che esagera a cui si aggiunge la Burn di bruciato) e il suo ghigno ironico che non ha timore di rivelare le falsità e le ipocrisie sue e degli altri ma non gli é da meno la splendida Annette Bening, nevrotica donna in carriera sistematicamente insoddisfatta della vita.
Tra gli altri ottimi protagonisti anche le sorprendenti Thora Birch e Mera Suvari, Wes Bentley, Chris Copper, Peter Gallagher, Allison Janney, Sam Robards e Scott Bakula.
VOTO: 7,5
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