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"Mandami un segno Signore! Io sarò il tuo servo come Mosè, anche se non sarò così a buon mercato".
La cine-biografia del periodo più controverso e nello stesso tempo luminoso, seppur per luce riflessa, dello scrittore geniale ma devastato dalle dipendenze e dal vizio Herman J. Mankiewicz, ovvero quello in cui l'autore ricevette l'incarico di scrivere la sceneggiatura di quello che doveva risultare il secondo film di Orson Welles, alle prese con un adattamento di Cuore di tenebra da Conrad che fece scappare tutti i produttori all'epoca disponibili, ovvero Quarto Potere, mette in evidenza una volta per tutte come la fonte di provenienza da cui sono estratti i fatti, fornisca necessariamente ed inevitabilmente un giudizio di parte.
Una versione che tuttavia, nella genesi che David Fincher da decenni tentava senza successo di tradurre sullo schermo, dopo essere stato sin da giovane incalzato dal padre giornalista Jack, depositario privilegiato di una versione dei fatti, ci trasporta già visivamente in quell'inizio anni '40 in cui il film fu finalmente concepito, dopo che la MGM arrivò a concedere carta bianca al rampante, tenace, e in questa versione anche assai sprezzante autore ventiquattrenne Welles, alle prese con una libertà d'azione così esasperata, da creare quasi le stesse problematiche di un vicolo cieco come i tanti tipicamente imposti dalle case finanziatrici.
In una America ancora scossa dagli strascichi della crisi finanziaria di oltre un decennio precedente, seguiamo le vicissitudini di tutta una precisa organizzazione per rimettere in sesto, sia fisicamente che nella testa, il brillante ma assai poco affidabile scrittore conosciuto come Mank, mentre, ancor reduce dai postumi traumatici di un grave incidente d'auto, viene condotto in un posto tranquillo affinché possa dedicarsi, nonostante i problemi di locomozione e la schiavitù da dipendenza da alcol, alla stesura del canovaccio che un esagitato Welles pone dinanzi all'eccentrico scenografo, affinché egli scateni finalmente quella vena creativa da troppo tempo sopita, come quasi annegata nel vizio.
Forte di una fotografia che richiama lo splendido bianco e nero dello stesso Quarto Potere, il film si serve della versione "anti Welles" - ovvero quella col giovane rampante cineasta nel ruolo di schiavista e sadico mentre assilla e tortura sadicamente lo scrittore reduce dai postumi del grave incidente, e spesso in preda ai deliri da abuso di alcolici, ben conscio del genio creativo che ne può derivare qualora il soggetto venisse adeguatamente incalzato nella stesura dello script - per rappresentarci con vitale spregiudicatezza un mondo già a quei tempi contrassegnato da calcolo ed arrivismo, che si traduce anche nella comparsa di ulteriori personaggi non meno originali ed eccentrici rispetto a quello dell'istrionico protagonista Mank, a cui un ispirato, sensazionale Gary Oldman dedica una delle sue più straordinarie performance mai raggiunte, in grado di ipotecargli un probabile, meritato secondo Oscar dopo il suo già memorabile Churchill.
Tra costoro, spiccano senz'altro il viscido, scaltrissimo, co-fondatore degli studios della MGM, Louis B. Mayer, reso in modo straordinario dal sin troppo sottovalutato gran caratterista Arliss Howard, anche lui in odore di Oscar come miglior attore non protagonista. E poi non è da meno rispetto a costoro, quanto a fascino ed alterigia, il personaggio dell'editore di primo piano William Randolph Hearst, a cui Charles Dance fornisce il suo innegabile appeal d'attore navigato.
Sullo sfondo, i lungimiranti sotterfugi di attrici ed attricette dedite anima e corpo a sopravvivere sulla cresta di quell'onda che le ha lanciate verso la gloria, ma che rischia sempre di riportarle nel baratro di dove sono venute, e per questo disposte a cedere a rendersi amanti dei ricchi e potenti di cui sopra. Particolari e dettagli utili a delinearci meglio il ritratto di una mecca del cinema arrivista e calcolatrice, che rispecchia tutti i connotati di un mondo dominato dalla avidità e dallo strapotere di chi ha le capacità, ma anche il carattere, di porsi a leader, e di chi la finezza intuitiva, come l'istrionico e irriverente Mank, di decifrarne e descriverne peculiarità e gesta, armandosi del disincanto di apparire più folle e inaffidabile del personaggio che già così peculiarmente il mondo esterno contribuisce a renderlo unico.
Mank conferma l'abilità di regia e direzione di Fincher, risultando un film complesso, a tratti sin troppo verboso, ma complessivamente godibile, oltre che visivamente e tecnicamente girato e concepito in modo eccezionale.
Ma ciò che rende il film un prodotto completamente riuscito, è senz'altro la capacità, davvero encomiabile proprio a livello di sceneggiatura e di definizione del personaggio, di aver reso Mank un personaggio irresistibile, genio quasi incomparabile che trae la sua forza, la sua ispirazione e la sua verve insuperabili. non dalle virtù abituali come costanza e sacrificio, bensì proprio dalla fonte della propria autodistruzione, del proprio vizio senza limiti, restituendoci il film il ritratto irresistibile ed appassionante di un individuo che sarà pure un inaffidabile concentrato di indolenza ed altri mille difetti, ma anche un soggetto decisamente più amabile, umano, ed accettabile di quanto ci appare il suo antagonista, ovvero di ciò che il film ci riferisce a proposito del suo accanito persecutore/uomo del riscatto chiamato Orson Welles; vera o falsa che possa risultare la versione proposta dal film, poco importa, in fondo.
"-Signor Welles ha qualcosa da dire al sig. Mankiewicz che condivide il premio con lei?
-Si ho un breve messaggio, potete riportarglielo? Mank, baciami il cu...ore".
E successivamente, alla consegna della statuetta a Mankiewicz:
"Sono veramente felice di accettare questo premio, per come quella sceneggiatura è stata scritta. E questo equivale a dire: in totale assenza di Orson Welles. Questo è tutto"
E a chi gli domanda "Perché allora ne condivide il premio? Mank risponde laconicamente:
"Beh questa, amico mio, è la misteriosa magia del cinema".
Appunto.
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