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Mank

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Mank

di ilcausticocinefilo
6 stelle

 

Auteur vs. Screenwriter: The Revival. Scontro di Titani. Chi ha “ragione”? Chi “torto”? Che la verità non stia piuttosto nel mezzo? L’ineffabile “ripescaggio” d’una sedicente controversia, la quale non ha mai avuto senso d’esistere, ecco cos’è questo Mank, nuovo opus di David Fincher. A che pro? A che pro dico andare a ritirar fuori una simile vicenda? E’ decisamente un qualcosa che ci si ritrova a chiedersi via via sempre più insistentemente nel corso della visione.

 

Il fatto che all’origine fosse un progetto del padre, a lungo meditato, ha forse fatto un po’ troppo sorvolare il regista circa numerose fragilità al livello dell'architrave narrativa che presumibilmente in un altro frangente avrebbe notato e corretto.

Nonostante la sceneggiatura sia stata a quanto pare rimaneggiata prima delle riprese da Eric Roth, qui anche produttore, in quanto ritenuta da Fincher (udite, udite) “troppo anti-Welles”, il risultato finale non è solo rimasto alquanto ambiguo da questo punto di vista ma anche talvolta un tantino traballante dal punto di vista dell’intreccio.

 

 

Gary Oldman, Amanda Seyfried

Mank (2020): Gary Oldman, Amanda Seyfried

 

 

In una battuta: Mank è, per così dire, “di tutto un po’ troppo”. Ovverosia, è quasi sicuramente troppo lungo, troppo parlato (nell’affanno di dire e spiegare ogni cosa, e non suggerire niente), soprattutto troppo “ingorgato” da un'interminabile sequela di flashback non sempre soverchiamente necessaria o rilevante ai fini della vicenda e della costruzione del discorso, dell’approfondimento psicologico del protagonista o in genere dell’approfondimento del contesto entro cui si muove e lavora

(vedasi – ad esempio – la parentesi concernente le elezioni californiane del ‘34 con la sfida Merriam-Sinclair: una parentesi si potrebbe dire affascinante, ma che in definitiva non porta a nulla, se non a ribadire per l’ennesima [e neanche ultima] volta la personalità un poco “outcast” e un poco “outsider” del tormentato sceneggiatore il quale, ben prima dell’avvento del maccartismo, fatica spesso ad inserirsi pienamente in un mondo del quale non condivide molte logiche [ovviamente in quella scena a venir ribadito allo stesso tempo è il potenziale propagandistico del mezzo cinematografico, ma pure questo aspetto oltre a non essere particolarmente originale o illuminante, non viene neanche particolarmente approfondito e serve alla fine a sottolineare una volta in più il carattere sottilmente anticonformista del personaggio]).

 

 

Tom Burke

Mank (2020): Tom Burke

 

 

Dunque, in sintesi, non solo Mank – come c’era da aspettarsi – non dice nulla di nuovo (esempio recente di storia similare: L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo, altro film “elevato” in misura decisiva dalla magistrale interpretazione del suo protagonista, là il grande Bryan Cranston), ma in particolare non lo dice neanche in modo tanto brillante, geniale o arguto come parrebbe invece credere di fare. In quanto la componente più urticante del tutto – quella che viene didascalicamente sottolineata dalle irritanti battute finali (ennesimo esempio, peraltro di come il film senta sempre la necessità di spiegare tutto a parole, credendo evidentemente alquanto idioti gli spettatori, ma non divaghiamo…) – è anch’essa già sentita e stra-sentita, oltreché espressa appunto in forme affatto sottili.

 

Il riferimento va ovviamente alla già citata sedicente controversia ruotante intorno alla sceneggiatura di quel capolavoro immortale che è Citizen Kane (alias Quarto potere). Purtroppo Fincher s’è impelagato da solo in questa sorta di sperticata “difesa” del ruolo dello sceneggiatore (ruolo che, al di là del film, non s’intende certo in questa sede ridimensionare o denigrare) per tramite della storia più insulsa possibile. Ereditando ossessioni particolari d’una certa celeberrima critica statunitense, all’epoca “eroicamente” impegnata in una personalissima “crociata” anti-teoria dell’auteur, si lancia in una ricostruzione fortemente ambigua.

 

 

Gary Oldman, Arliss Howard, Tom Pelphrey

Mank (2020): Gary Oldman, Arliss Howard, Tom Pelphrey

 

 

Tutto ha inizio nel 1971. Questo, l’anno nel corso del quale Pauline Kael (per chi non l’avesse capito, la critica di cui sopra) pubblica “Raising Kane” sulle pagine del New Yorker. Tramite tale scritto va’ pretestuosamente a rinvangare (al fine ovviamente di sostenere la sua tesi dell’importanza determinante dello sceneggiatore) la genesi del copione del film d’esordio di Welles.

Lo fa, però, adottando una prospettiva aprioristicamente limitata e parziale. Non a caso “perviene”, se così si può dire, alla conclusione che il merito per la stesura dello script sia da ascrivere in toto a Mankiewicz, mentre Welles finisce per esser tratteggiato come un giovanotto un poco arrogante e furfantello disposto a fare ogni cosa in suo potere nell'intento di negare il dovuto riconoscimento allo sceneggiatore.

 

La Kael decide insomma di sollevare un polverone laddove non c’è mai stato un polverone da sollevare e, difatti – se la stampa mainstream, vista la fama dell’autrice, si beve d’un sorso la storiella – guarda caso diversi esperti e studiosi del settore al contrario si dedicano a demolirla passo passo sin da subito, mettendone in luce tutte le parzialità, le omissioni, i “non detti” strumentali (come ad esempio la mancata ammissione da parte della critica d’essersi basata - per "ricostruire" la vicenda - in buona parte sulla testimonianza di Houseman che aveva motivi di livori personali con Welles e che comunque non viene rappresentato proprio positivissimamente neppure nel film [è quello che potremmo definire lo stressante “importunatore seriale” di Mankiewicz al lavoro]).

 

 

Gary Oldman

Mank (2020): Gary Oldman

 

 

Le tesi sostenute dalla Kael vengono sbugiardate prontamente, si diceva. Non da ultimo da R. Carringer (in “The Scripts of Citizen Kane”, Critical Inquiry vol. 5 n. 2, 1978, pp. 369-400) il quale – andando a rovistare negli archivi d’epoca della RKO, ritrovandovi tutte le varie stesure della sceneggiatura – rivela in modo inequivocabile a chiunque voglia stare a sentire come il contributo di Welles non fu “solo sostanziale, ma bensì decisivo” (p. 370).

In conclusione aggiunge piuttosto eloquentemente che “a quel che Mankiewicz gli dette, Welles si approcciò allo stesso modo in cui sempre si approcciò allamateria narrativa”, ovvero non come ad un piano fatto e finito da ridurre o realizzare così com’è ma bensì come ad un materiale di base al servizio d’una successiva creazione originale ed indipendente, e difatti l’adattò con la stessa libertà ed “insofferenza nei riguardi dell’autorità” con le quali poi adatterà Shakespeare o Nicholas Blake. […]

Nelle otto settimane intercorse dal momento in cui il materiale prodotto a Victorville passò nelle sue mani sino al completamento della stesura finale, la sceneggiatura di Quarto potere fu trasformata, principalmente da lui, da una solida base per una storia in un autentico piano per un capolavoro. Neppure i più convinti difensori di Mankiewicz andrebbero così lontano sino ad affermare che Welles non fu il principale responsabile della realizzazione del film. Tuttavia – alla luce delle proveè probabile dovranno risolversi a concedergli altresì la responsabilità principale della realizzazione della sceneggiatura

 

 

(What Mankiewicz gave him Welles approached as he always approaches "story material," not as blueprint to be approximated or realized but as a source work at the service of an original, independent creation, and he adapted it with the same freedom and disregard for authority he adapts a Shakespeare play or a thriller by Nicholas Blake. […] In the eight weeks between the time the Victorville material passed into Welles' hands and the final draft was completed, the Citizen Kane script was transformed, principally by him, from a solid basis for a story into an authentic plan for a masterpiece. Not even the staunchest defenders of Mankiewicz would deny that Welles was principally responsible for the realization of the film. But in light of the evidence, it may be they will also have to grant him principal responsibility for the realization of the script”).

 

 

Gary Oldman

Mank (2020): Gary Oldman

 

 

Ciononostante, il Mank di Fincher rinverdisce i fasti d’una teoria da tempo screditata, e per di più per il resto non offre alcun appiglio al coinvolgimento dello spettatore magari digiuno di tutte queste vicende. Mentre, per converso, dalla prospettiva del "cinefilo", oltre a risultare non poco irritante per via del suo proposito di diffamare ulteriormente uno dei più grandi registi della storia del cinema, in aggiunta come già detto non dice nulla di nuovo o illuminante sulla macchina produttiva hollywoodiana e i lati oscuri celati dietro la fabbrica dei sogni.

Mank risulta essere un film alquanto fiacco, privo di mordente, intrigante visivamente (grazie al bel b/n di Messerschmidt) ma mai veramente convincente dal punto di vista narrativo. Non riesce a trasformarsi in un disincantato affresco d’epoca, anche se la cornice e la tecnica ne rivelano l’intenzione; non riesce a costruire nessuna scena realmente memorabile (salvo forse quella “sognante” di Mankiewicz che passeggia insieme alla Davies per la gigantesca reggia di Hearst) e in definitiva si regge quasi unicamente sulle spalle degli attori (portentoso il camaleontico Oldman, ma si sapeva; menzione speciale per Burke che interpreta con sorprendente abilità e aderenza Welles). Un po’ pochino. Un po' pochino.

 

 

Amanda Seyfried

Mank (2020): Amanda Seyfried

Gary Oldman

Mank (2020): Gary Oldman

"I am very happy to accept this award in the manner in which the screenplay was written, which is to say in the absence of Orson Welles."

"Yeah, sure!"

 

 

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