Regia di Michael Mann vedi scheda film
La capacità e il coraggio di un cinema che si prende il suo tempo, che indugia sulle facce e sui particolari (le mani sempre in moto di Al Pacino, gli occhiali e i silenzi di Russell Crowe, un solitario, inquietante giocatore di golf nella notte, gli elementi ravvicinati di una camionetta di komeinisti) per raccontare i mondi distanti di due uomini, che si incrociano in nome di un ritrovato orgoglio. Il mondo di Lowell Bergman è quello veloce dell’informazione d’assalto: “60 Minutes”, programma di punta della Cbs, famoso per le sue interviste di attualità. Quello di Jeffrey Wigand, invece, è un mondo privato, segnato dai ritmi quotidiani della famiglia, sconvolto dal suo improvviso licenziamento dalla multinazionale del tabacco per la quale è dirigente. Wigand è uno scienziato, la sua moralità non può tollerare più quello che vede. Bergman lo marca stretto e lo convince a denunciare. Ma neppure il suo mondo è a posto. Come in “Heat”, Michael Mann lavora ancora su due fisionomie diverse per farle, lentamente, sovrapporre. Le intenzioni non corrispondono quasi mai ai risultati. Non basta avere appese in ufficio le foto di Allen Ginsberg e Martin Luther King per essere in pace con il proprio passato. Non basta aver studiato con Marcuse. E non basta neppure, semplicemente, andarsene in silenzio. Tutti e due, in qualche maniera sottile e insinuante, hanno tradito quello che erano. E tutti e due lo ritrovano: «Che cosa è cambiato?». «Vuoi dire da stamattina?». «No, voglio dire da sempre. Al diavolo, andiamo in tribunale». Una scelta morale, in extremis forse; ma finalmente morale, a costo di buttare per aria carriera, famiglia, solidità, forse addirittura la sicurezza personale. “Insider” non è un pamphlet, non è il solito film sociale: è un raro esemplare di grande cinema morale, di scavo atroce su quello che eravamo e quello che siamo diventati. Non ci sono alibi: come dice la moglie ad Al Pacino: «Devi sapere quello che vuoi fare prima di farlo». Ci riguarda tutti.
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