Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
Il sesso non è un sogno proibito, né un rito sociale, né il frutto di un istinto; è, invece, un concetto universale e multiforme che una lucida volontà creativa può tradurre in atti concreti. La donna, la figura intorno a cui ruota l’universo erotico, non è che un’invenzione funzionale al progetto da realizzare: per questo può assumere, come nel mondo felliniano, tante diverse forme fisiche, psicologiche ed intellettuali, ognuna adatta ad una diversa fantasia, un diverso gusto, un diverso obiettivo. In questo gioco, però, è la donna a condurre le danze, in quanto è lei l’artefice di se stessa: femminilità è, infatti, l’innato talento di proporsi in maniera originale, sorprendente e provocatoria, non sottomettendosi ai desideri maschili, bensì plasmandoli a proprio piacimento. È la donna a dare vita, col proprio corpo ed i propri atteggiamenti, ad un personalissimo modo di farsi volere ed amare. Nell’immaginario di Peter Greenaway, ella è una dominatrice priva di poeticità, perché è, di per sé, una categoria vuota, razionalmente strutturata per essere riempita (o, meglio, per riempirsi) dei contenuti più disparati. Fin dai tempi de Lo zoo di Venere, è un essere in grado di inventarsi storie e ruoli, di recitare, di travestirsi, di trasformarsi, mentre l’uomo rimane a guardare: egli appare costituito di un anonimo impasto di carne, capace solo di specchiarsi nel suo simile (come i due fratelli Deuce, o, in questo film, i signori Emmenthal senior e junior), e di subire la triste decadenza della materia (l’invecchiamento, la morte, la decomposizione). La donna, per contro, anche quando muore, è come un angelo che improvvisamente vola via, o una divinità che trapassa ad una dimensione superiore, e continua a condizionare, dall’aldilà, i destini degli uomini che le sopravvivono. In questo senso è una, nessuna, centomila, eternamente autonoma e sfuggente, eppure rigorosamente determinata, come le geometrie ritmiche e squadrate e gli spiccati contrasti cromatici dei quadri di Piet Mondrian, a cui si rifanno le luci e gli scenari di molte sequenze del film. La sua presenza modifica l’ambiente come il passaggio di un’idea spaziale, dello spunto per uno spettacolo in loco, che tramuta il quadro in un misto di installazione artistica e palco teatrale. La sua estetica è quella della sintesi simbolica, che, in ogni istante, la rende il personaggio rappresentativo di un aspetto della vita: la frivolezza, la religiosità, l’ambiguità, la fedeltà, la spregiudicatezza che, a ben vedere, sono gli elementi che maggiormente influenzano l’andamento dei rapporti tra i sessi. Il bordello è, in questo film, nient’altro che una raccolta antologica di vari tipi femminili, come al solito organizzata in quadri: un casellario che mette provvisoriamente ordine nel turbinio del cosmo, però senza dare, alle cose, una collocazione definitiva. La visione pittorica, in Greenaway, è un’istantanea che cattura una momentanea disposizione dei soggetti, nel breve intervallo di tempo che la separa dalla successiva evoluzione: è, questa, l’impostazione che il suo Nightwatching traduce in una sorta di galleria cinematografica, e che dà luogo, nelle sue prime opere, a quel tipico enciclopedismo che procede per varianti, e che, mentre classifica, sottopone a modifiche e sviluppi. Le otto donne e mezzo del film entrano di buon grado nell’harem predisposto dai due protagonisti maschili, però, al momento opportuno, lo abbandonano per andare oltre. La loro incostanza è una ricchezza interiore che alimenta una variegata dinamica esistenziale, vissuta con matura consapevolezza, senza drammi né eccessivi coinvolgimenti emotivi. La “freddezza” che distingue l’approccio di Greenaway da quello di Fellini, è il carattere dell’adorazione rivolta ad un essere ineffabile, di cui si avverte l’irraggiungibile superiorità: è il sintomo di un’ammirazione deferente, priva di passione viscerale, perché impegnata in uno studio attento ed imparziale di un fenomeno visto da lontano, e considerato straordinario.
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