Regia di Taylor Sheridan vedi scheda film
Opera minore di Taylor Sheridan (di un'accomodata maturità), quindi non perdetevela.
Eptalogia della Frontiera di Taylor Sheridan:
- “Sicario” [***¾] di Denis Villeneuve (2015)
- “Hell or High Water” [***¾] di David Mackenzie (2016)
- “Wind River” [***¾] di Taylor Sheridan (2017)
- “Soldado” [---] di Stefano Sollima (2018)
- “YellowStone” [****¼] di Taylor Sheridan (2018 - in corso)
- “the Last Cowboy” [---], reality-show (2019)
- “Those Who Wish Me Dead” [***¼] di Taylor Sheridan (2021)
Di questa quarta regìa (dopo «Vile» - che non ha scritto -, «Wind River» e la 1ª stag. di «YellowStone») di Taylor Sheridan, il titolo, magnifico, è forse la cosa più bella - ed è preso dal libro omonimo del 2014 di Michael Koryta, «Those Who Wish Me Dead», dal quale è stata tratta la sceneggiatura, scritta, con Charles Leavitt («K-Pax», «Blood Diamond», «In the Heart of the Sea», «WarCraft»), dagli stessi romanziere e regista -, e dico forse perché c’è anche una breve sequenza, di una classicità estrema, che mette in scena un idillio arcadico: una strada statale asfaltata che, costeggiata da recinti «aperti», divide a metà la sconfinata pianura pascolosa che termina verso l’apparente infinito dei lontani orizzonti montuosi (il Canada, per i panorami ripresi dall’alto, e il New Mexico, per le scene a terra, interpretano il Montana e i suoi «Open Range»), e poi un cavallo brado e un ragazzino di città…
«La cena è sui fornelli, la birra è in frigo, il mondo è ancora in ordine.»
Recentemente mi è capitato di bocciare su tutta la linea uno script di Sheridan (anch’esso tratto da un romanzo thriller pre-esistente e anch’esso co-sceneggiato), quello del «Without Remorse» di Stefano Sollima, perciò, essendo leggermente in over-dose/burn-out, farò una cosa che non faccio, quasi, mai, ovvero lasciare la parola a qualcun altro, in questo caso a Roberto Manassero da FilmTv n° 23/2021: «La cosa più scontata da dire su Quelli che mi vogliono morto è che sia una rielaborazione di temi, personaggi e situazioni da cinema western. Il film è il racconto di una fuga, di un inseguimento, di un salvataggio, di un duello, di una lotta per sopravvivere e di un trauma da elaborare [e di un riscatto, nel senso di riscossa; NdR]. Con Taylor Sheridan […] è sempre così: un confronto con una tradizione che è mitologia e che sopravvive in quanto forma riconoscibile. Se il gioco è scoperto in altri suoi lavori […] qui c’è il filtro dell’attualizzazione, della trama da thriller […] e del melodramma […]. Il western è nei paesaggi naturali, nelle psicologie semplificate, nella recitazione legnosa (Angelina Jolie esprime il tormento del suo personaggio con una sola espressione sul volto di cera), nei passaggi simbolici [...], senza però il lirismo straziante della tradizione. Sheridan squaderna il genere in modo scolastico, è greve ed evidente, a volte illogico.»
E fin qui, a grandi linee, concordo. Il finale, ad esempio, è, sotto vari aspetti, ulcerosamente aperto (ma non è un male…).
Poi però prosegue: «Soprattutto, senza una sola idea forte di regia [...], insegue una classicità ridotta a puro modello e dunque priva di alcun spessore.»
Ché no, non è Ford, Hawks, Mann, Peckinpah, Leone, Hellman o Eastwood, ma la regìa a tratti si «evince», come già ho fatto notare più sopra, e, soprattutto, non «insegue» alcunché, perché, semplicemente, lo è: ne è pervasa, e il modello, in rilievo, dimostra tutta la sua stratificata "superficiale profondità".
Di Angelina Jolie è già stato detto, ma l’interpretazione la sufficienza se la porta a casa. Invece il volto di Jon Bernthal ("the Ghost Writer", "the Wolf of Wall Street", "Fury", "the Walking Dead", "Sicario", "Show Me a Hero", "Wind River", "Baby Driver", "the Punisher", "Widows"), scolpito nella pietra con un martello pneumatico, è un valore costitutivo: graniticamente complesso. Mentre valori aggiunti sono «quella faccia lì» di Aidan Gillen (Tommy Carcetti in «the Wire», LittleFinger in «Games of Thrones» e poi ancora rimarcabile in «Calvary») e Nicholas Hoult («Skins», «the Favourite», «the Great»). E infine chiudono il cast il sempre affidabile Jack Weber («Medium»), la bravissima Medina Senghore, il giovane co-protagonsta, che se la cava benissimo, Finn Little e il grande caratterista Boots Southerland (“YellowStone”).
Fotografia di Ben Richardson (“Beasts of the Southern Wild”, “Cut Bank”, “Wind River”, “YellowStone”, “1922”, “Mare of EastTown”), montaggio di Chad Galster (“YellowStone”) e musiche di Brian Tyler (“YellowStone”). Sui titoli di coda scorre "LightHouse" di William Prince.
Producono New Line & C., e distribuisce Warner.
- Odio questo fottuto posto.
- E questo posto odia te.
Detto ciò, attendo con ansia la 4ª stag. di «YellowStone», con un occhio anche ai - molti, forse troppi - progetti in varie fasi di preparazione e realizzazione, fra i quali spicca un «Y:1883», dove la «Y» è il marchio impresso a fuoco sulle carni animali (e umane) e «1883» è l’anno, vale a dire la mitopoiesi della sua creazione più riuscita, un prequel alla serie con Kevin Costner incentrato sulle origini dell'impero geografico ed economico dei Dutton.
- Hai fatto la cosa giusta, vero?
- Sì, però mi dispiace comunque.
* * * ¼ - 6½
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