Regia di Kevin Macdonald vedi scheda film
Tanto di cappello per Kevin MacDonald, che dopo averci raccontato la traiettoria umana e politica del feroce dittatore ugandese Amin Dada e i rapporti tra CIA e nazisti (Il nemico del mio nemico), prosegue sul solco dell’impegno civile e politico con questa terribile storia, in gran parte ambientata nel carcere di Guantanamo, sotto gli auspici di quei criminali di George Bush Jr. e Donald Rumsfeld. Al centro della vicenda c’è Mohamedou Ould Slahi (Rahim), un giovane musulmano della Mauritania che, all’indomani dell’11 settembre, viene ingiustamente accusato di essere uno degli organizzatori dell’attentato alle Torri Gemelle. A difenderlo c’è una caparbia avvocatessa col pallino dei diritti umani (Foster), mentre l’accusa è guidata da un militare (Cumberbatch) che ha perso un amico carissimo in quella occasione, ma che saprà tenere gli occhi ben aperti quando si accorgerà di quale gigantesca montatura si nasconda dietro la vicenda.
La messa in scena è decisamente classica, gli attori sono assolutamente all’altezza della situazione, ma il racconto indugia eccessivamente su tutta la girandola di torture a cui viene sottoposto il protagonista, preferendo imboccare a tratti la via della spettacolarizzazione della violenza piuttosto che quella dell’inferno psicologico vissuto dal Slahi. Sui titoli di coda compare proprio lui, che in quella prigione ci passò 14 anni, mentre canta una canzone di Bob Dylan: come faccia ad avere un sorriso così aperto e contagioso è un mistero. Quel che è certo è che l’autobiografia che è alla base del film è stata tradotta in decine di lingue diverse.
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