Regia di Tommy Lee Wallace vedi scheda film
Inizialmente concepito come uno sceneggiato diviso in otto puntate, l’adattamento per la ABC del bestseller di Stephen King venne trasformato in una miniserie di due capitoli contenente una troupe corale d’estrazione televisiva: tra gli adulti erano presenti John Ritter (“Three's Company”) nei panni di Ben Hanscom, Richard Thomas (“The Waltons”) in quelli di Bill Denbrough, Annette O'Toole (“Smallville”, “Nash Bridges”, "48 Hrs.") nella sottana di Bev Marsh, Harry Anderson (“Night Court”) alias Richie Tozier, Dennis Christopher (Eddie Kaspbrak), Tim Reid (Mike Hanlon), la shakespeariana Olivia Hussey (Audra) e Richard Masur (Stanley Uris) de “La Cosa”. Fra i ragazzini c’erano invece Seth Green (Richie) di “Buffy”, Emily Perkins (Beverly) del futuro cult “Ginger Snaps”, Brandon Crane (“The Wonder Years”) nelle voluminose vesti di Benjamin, lo sconosciuto Ben Heller/Stan Uris (che recentemente ha partecipato a dei corti), Marlon Taylor (Mike), Adam Faraizl (Eddie "Spaghetti”) e dulcis in fundo il talentuoso e sfortunato Jonathan Brandis (Bill “Tartaglia”), prima del debutto da teen-idol in "SeaQuest", mentre il bravissimo caratterista Jarred Blancard indossava la giacca dello scavezzacollo Henry Bowers. Intanto, gli agenti di casting avevano preferito il mitico Tim Curry a Malcolm McDowell per assumere le inquietanti sembianze di It, e a dirigerli si candidò Tommy Lee Wallace; mestierante con un curriculum dignitoso, il quale aveva affiancato Carpenter in produzioni minori e si era prestato alla regia di alcuni episodi di “Twilight Zone” (“The Leprechaun-Artist” e “Dead Run”, che consiglio di ripescare). Ergo, non certo un Romero, e neanche l’ultimo dei demiurghi proponibili. Domanda: “IT” è un prodotto invecchiato? Sì, però si conferma ancora un godibilissimo e nostalgico surrogato dell’atmosfera agghiacciante del romanzo.
Inutile girarci attorno, il merito del successo clamoroso via etere va attribuito a Curry. L’attore britannico, dopo “Legend” di Scott, era poco incline a "incipriarsi" con un make-up che richiedeva ore di preparazione, e optò per un trucco minimalista. Questo “capriccio” fu determinante per quella parvenza terrificante (il look infernale alla "Bozo il Clown" esposto nel libro) che entrò nell’immaginario collettivo. La maschera, ispirata al design dell’epico Lon Chaney ne “Il fantasma dell’Opera”, illustrava un brutale boogieman il cui volto risaltava uno spaventoso contrasto bianco e rosso. La performance eccezionale e volutamente istrionica rappresentava un Pennywise spietato, la cui indole malvagia rimembrava vagamente quella del maniaco omicida John Wayne Gacy; malgrado le apparizioni non siano frequentissime, in diverse sequenze conservano tuttora una solida propensione a turbare gli astanti. Pure gli effetti speciali, un po’ scopiazzati da “Nightmare” e ampliamente sorpassati, sfoggiano un estro artigianale pregevole; tra questi vanno citati lo stop-motion di Pennywise, la mano ripugnante che sbuca dalla grata, le piccole e minacciose creature uscite dai dessert e l’album di Georgie che prende vita. I palloncini, che scoppiano sgorgando sangue, saranno grossolani, e nondimeno rimangono iconici. A orchestrare le scene perviene la splendida colonna sonora elettronica e strumentale di Richard Bellis, la quale intercala nel montaggio col taglio ideale (geniale il tema funereo da circo e delizioso il delicato spartito di piano assemblato ai movimenti dei dolly nei Barren).
Opinioni discordanti sulla recitazione, non sempre elogiata nelle recensioni. Nel complesso, le interpretazioni mantengono un bilancio discreto. Spicca Brandis: espressivo, calato nel ruolo con la dovuta passione. Apprezzabili altresì Green e Crane (i quali, nelle loro caricature, si esibiscono in ogni caso con una convincente attinenza ai personaggi su carta), e incantevole la Perkins, anche se il doppiaggio è abbastanza strimpellante; mettendo a paragone i “Loosers” del 1960 con quelli maturi, quest'ultimi hanno un tratteggio meno curato, ma non debordano dalle sagome complessate sciorinate dal Re del brivido. Un occhio di riguardo va in particolare a Ritter e Reid. Decorosi O’Toole, Anderson e Thomas (che ha una lunga chioma, a differenza del Bill stempiato di King), escludendo qualche irritante eccesso "teatrale".
Sarebbe rischioso andare in apnea elencando le assenze salienti: gli efferati omicidi di Adrian Mellon ed Eddie Corcoran, lo scontro funesto con il licantropo al 29 di Neibolt Street, la sparatoria della Banda Bradley (ove Pennywise si tramutava in un gangster senza ombra), l’incendio al Punto Nero, le forme differenti del mostro nei primi incontri con Hanscom e Kaspbrak (ovvero una mummia e un barbone libidinoso), il crudele dodicenne Patrick Hockstetter (appena accennato da una comparsa molto marginale), Victor Criss (il tirapiedi di Bowers, che qui dovrebbe essere Drum Garrett, chiamato genericamente “Belch”, il quale in realtà era un altro scagnozzo di Henry), il viaggio nel macroverso e qualsiasi riferimento alla tartaruga leggendaria, il cui accenno avrebbe giustificato il fatto che il pagliaccio assassino non divora i Perdenti quando ne ha l’occasione. Mitigato parecchio materiale violento o a sfondo sessuale. Le debolezze maggiormente evidenti si riscontrano alla fine nello script di Wallace e Lawrence Cohen, che comprende dialoghi spesso plateali ed enfatici, lontani dalla raffinatezza psicologica della sorgente.
“IT” ormai ostenta gli anni che porta sul groppone: si tratta di un lavoro tecnicamente arcaico, con una scrittura colma di ingenuità. Ciononostante, eliminate le perplessità, intrattiene dannatamente bene. Postilla spoilerosa: l’animatronic del ragnone, innegabilmente modesto, è comunque temibile, perché lo snobbano?!
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