Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Venezia 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Quando vinse il Leone d'oro nel 2016, "The woman who left" di Lav Diaz, che già rappresentava un compromesso rispetto agli standard di durata del suo autore, richiese 3 ore e 46 minuti di proiezione in Sala Grande. Fece scalpore tra gli addetti ai lavori ed ebbe una difficile distribuzione, dovuta, almeno in parte, alle difficoltà nel trovare esercenti disposti a proiettare un film così lungo, e a rivoluzionare, per qualche giorno, l'abituale scaletta settimanale, con perdita di spettacoli e biglietti. Il minutaggio di "The woman who left", in fondo, non era un granché se rapportato ad altre celebri pellicole del regista filippino. "Death of the land of Encantos" (9 ore), "A lullaby to the sorrowful mystery" (8 ore e 5 minuti), Melancholia (7 ore e 30 minuti), che negli scorsi anni trovarono spazio a Berlino, Venezia ed in pochi altri luoghi del globo, osarono sfidare le consuetudini commerciali per cui un film deve aggirarsi intorno ai 120/180 minuti complessivi. Immagino che la durata abbia fatto desistere molti appassionati, almeno quelli per cui un film va goduto nella sua interezza, senza pause spuntino ed altri pit stop. I 157 minuti di "Lahi, hayop", ultima fatica di Lav Diaz, rappresentano, dunque, una ghiotta eccezione per accedere alla filmografia del maestro senza dover ricorrere ad un mutuo presso la banca del tempo, almeno socondo chi scrive.
"Genus Pan" racconta la storia di Andres che decide di tornare al villaggio dopo aver lavorato in miniera. Non ci sta più a tornare nel pozzo, a spezzarsi la schiena per un tozzo di pane. Preferisce svendere gli attrezzi che ha acquistato per l'occasione e ritornare al paese natio. Così, conclusa l'esperienza, intraprende il viaggio di ritorno assieme ad altri due operai suoi compaesani. Baldo, il primo di questi, gli ha procurato il lavoro e per questo reclama una parte del guadagno di Andres. Paulo, il secondo, uomo pio e di buon cuore, cerca di assecondare il più giovane le cui sacrosante istanze sono quelle di un popolo sfruttato nel lavoro e nei diritti basilari. I tre intraprendono la via più lunga e faticosa per non perdere una fetta ulteriore dello scarno salario guadagnato. Optano, dunque per un cammino a tappe invece di ricorrere ad un traghettatore che li avrebbe riportati a casa in minor tempo con annesso pizzo alle autorità. Lungo la via, all'interno dell'isola, Paulo cerca di appianare i dissidi tra Andres e Baldo che sovente litigano per i soldi...finché un cavallo nero si frappone tra il ragazzo e i due uomini...
"Genus, Pan" è la somma di due parti distinte. La prima ambientata nel fitto del bosco ha per protagonisti i tre minatori, la seconda è ambientata al villaggio dove Andres è finalmente giunto al prezzo di grandi sacrifici. Diaz riprende il discorso imbastito tra gli alberi e il fogliame tornando sul giovane uomo preso di mira dai corrotti funzionari di polizia del villaggio che vorrebbero fargli scontare colpe non sue. Nella faida tra giustizia e giustizialismo viene posta la figlia di Paulo, la povera Mariposa che vive rinchiusa nella concentrica dimensione dell'autismo. La disabilità della ragazza non ferma il crudele Inngo che nel villaggio è la corruzione del sistema politico e giuridico. La giovane donna viene usata per ridurre la somministrazione della giustizia ad una mascolina e distorta rappresentazione del potere.
La prima parte del film è senz'altro la più efficace. Lav Diaz lascia sul carrello la m.d.p. per dare vita a lunghe sequenze ad immagine fissa nelle quali i tre uomini, vengono posti ai vertici di un triangolo mitologico/panteistico/religioso. Berto, il caparbio e vendicativo "padre", il "figlio" rivoluzionario Andres, il "saggio e spirituale" Paulo si alternano nei dialoghi, nei litigi e nelle contrapposizioni ideologiche con cui Diaz racconta della spiritualità, dell'ignoranza e delle superstizioni che avvolgono, come fronde soffocanti, l'arcipelago asiatico. Nessuna fede e nessun potere secolare possono elevare l'uomo dal baratro della bestialità perché non ci sono le premesse per consentire alla razza umana di inibire gli istinti primordiali che si nutrono di corruzione morale, disparità e povertà, aspetti presenti nel tessuto sociale di una popolazione abituata alle catene.
Nelle riprese di Lav Diaz la posizione degli oggetti e dei personaggi è attentamente studiata. La costruzione delle vie di fuga conferisce alle immagini la sontuosità dei grandi scatti paesaggistici anche se il fitto del bosco spesso racchiude gli scorci e nasconde gli orizzonti lontani di una natura prodiga di bellezza e misteri. L'uso della luce naturale è quanto mai affascinante poiché Diaz si avvale del bianco e nero che dipinge il bipolarismo dell'umanità: bontà o cattiveria, bestialità o raziocinio, giustizia o iniquità. Senza i colori della natura è la cangiante luce del sole a descrivere i cambiamenti umorali dei protagonisti. Una nuvola di passaggio lascia presagire sete di vendetta e azioni funeste. Evaporata, lascia lo spazio avvolto da un'accecante fame di speranza. Diaz sfrutta l'effetto naturale, elemento distintivo di un ambiente campestre, per arricchire il racconto di significati simbolici. Luce e tenebre avvolgono l'uomo ed il paesaggio, avvolgono la mente ed il cuore.
Passando alla seconda parte del film è necessario ritornare sulla questione della durata. Nonostante la difficoltà a reggere i ritmi sonnolenti del racconto il film è risultato, a mio avviso, sin troppo corto. Una contraddizione che ha una sua logica.
La parte dedicata al cammino risulta ineccepibile dal punto di vista narrativo benché il ripetersi di dialoghi e situazioni rasenti la ridondanza. A contrario, una volta che l'azione si sposta al villaggio e decade il concetto teatrale di unicità di tempo e luogo, il film mostra incertezze che a mio avviso scaturiscono dalla necessità/volontà di accorciare i tempi e intrecciare le linee narrative, fin lì seguite, corrispondenti ai personaggi di Andres, Mariposa ed Inggo.
C'è qualche omissione di troppo, i legami tra i personaggi faticano ad emergere ma soprattutto sembra venir meno la consequenzialità rispetto alla prima parte. Gli eventi sono difficili da collocare a livello temporale ed il montaggio, dello stesso Diaz, non sembra in grado di rendere fluida la narrazione. Perciò, nonostante la lentezza si faccia sentire e vedere, basti pensare alla processione religiosa che sembra congelata in un torrido ed eterno perdurare, l'impressione che se ne ricava è che Lav Diaz sia a suo agio quando può dilatare i tempi e ricamare con immagini e parole il proprio tessuto. Sia meno efficace, invece, quando deve sintetizzare la materia filmata per obbedire alle regole non scritte di un mercato che consuma opere di breve durata. Probabilmente "Lahi, Hayop" avrebbe meritato un minutaggio maggiore grazie al quale Diaz avrebbe potuto concedere maggiori dettagli sulla vita arcaica e tormentata di coloro che non si arrendono ai soprusi ma non hanno le energie per affrancarsene. "Lahi, hayop" è un film politico nella misura in cui descrive gli effetti del potere sulla popolazione ma non policizzato in quanto non si prende la briga di fare nomi e cognomi. Che senso avrebbe? Gli uomini non sono forse vittime del potere dalla notte dei tempi? Il nome del tiranno di turno cambia ma la sostanza è, forse, destinata a cambiare? È questo il messaggio duro e sincero che la giuria di Orizzonti ha estrapolato dal film assegnando il Premio per la miglior regia al regista filippino all'ultima mostra del cinema.
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