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The Wasteland

Regia di Ahmad Bahrami vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Wasteland

di obyone
8 stelle


scena

The Wasteland (2020): scena

 

Venezia 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.

A spulciare tra i premi conferiti sembra che il tema del lavoro abbia colpito particolarmente le giurie dell'ultima Mostra di Venezia. Il Leone d'oro è andato, infatti, a "Nomadland" di Chloé Zhao che seguiva le orme di una donna alla ricerca di occupazione lungo le strade dell'Ovest americano. Nella sezione Orizzonti il premio per il miglior film è stato assegnato a "The Wasteland" che raccontava i drammi di alcune famiglie iraniane rimaste senza sostanze dopo la chiusura di una fabbrica.

Nel deserto iraniano a chiudere i battenti era un opificio che produceva mattoni in terra cotta, troppo costosi e obsoleti per un settore invaso da materiali da costruzione economici e performanti come il cartongesso...

Dall'altra parte del mondo, in Nevada, le peregrinazioni della protagonista erano il frutto della crisi immobiliare che aveva decretato la chiusura di un impianto industriale per la produzione di... cartongesso. 

Ironia della sorte, questo materiale leggero e flessibile, che gli americani usano con disinvoltura per aprire e chiudere spazi nelle loro case, era causa comune di precarietà. Troppa era la richiesta di cartongesso da una parte, troppo poca dall'altra.

Le analogie tra le opposte realtà non si limitavano all'oggetto della crisi ma anche al luogo poiché l'ubicazione dell'impianto americano era, guarda caso, nel bel mezzo del deserto. 

I lucchetti ai recinti avevano causato in Nevada danni economici ingenti mettendo sul lastrico gli abitanti di un'intera cittadina e con essi l'insegnante interpretata da Francis McDormand. Magari quest'ultima non sarebbe finita a girovagare in un camper se non ci fossero state le sanzioni contro l'Iran ad impedire i commerci con la repubblica islamica. Le eccedenze nella produzione americana potevano essere dirottate sulle città mediorientali in espansione, affamate di nuovi prodotti edili, salvando così qualche posto di lavoro in mezzo alle sabbie bollenti del Black Rock Desert. Gli operai della "terra desolata" sarebbero finiti invece in un carretto trainato da un animale da soma per tornarsene al natio villaggio, indipendentemente dalle ritorsioni internazionali volute dagli Usa, perché non c'erano alternative credibili che potessero evitare la chiusura di una modesta attività praticata nel fango.

 

scena

The Wasteland (2020): scena

 

Il regista Ahmad Bahrami ha portato sullo schermo la mancanza di speranza in un ambiente talmente ostile nel quale persino il sole iraniano si fa beffe del popolo picchiando più forte di quanto non faccia sulle teste degli operai statunitensi. 

"The Wasteland" è ambientato nell'ultimo avamposto ai confini con l'infuocato Dasht-e Lut, il più caldo deserto del globo. In questo luogo di archeologia industriale, spopolatosi inesorabilmente nel corso degli anni, un mattonificio resiste all'isolamento e ai progressi tecnologici. Ma un giorno il titolare della fabbrica chiama il suo fedele amministratore Loftollah e gli chiede di radunare gli operai e i loro familiari perché possano apprendere quanto deve dire sotto il solleone pomeridiano. La fabbrica sta per chiudere.

Nulla cambia e tutto si ripete in queste "terre seccate dal sole" dove gli uomini e le donne si spezzano la schiena per una paga misera ed un alloggio di fortuna. Gli uomini e le donne di questi luoghi, rassegnati alla povertà, figlia della precarietà, possono solo aggrapparsi alle loro ataviche consuetudini come un tè rilassante o il pudico e avvolgente lenzuolo bianco che dona per una notte tranquillità e pace a chi governa la casa. Per rendere la staticità di un mondo oppresso da sempre dai medesimi mali Ahmad Bahrami opta per alcune soluzioni registiche emozionanti ma pericolose. Tutto intorno ad un ambiente ancorato al passato Bahrami costruisce un film fatto di movimenti lenti, come quelli dei corpi massacrati dall'arsura, e di riprese circolari e ripetitive come sanno esserlo sempre i destini dei poveri e dei perdenti, in particolare le donne. Nel suo schema il regista mette in scena il comunicato collettivo e poi il colloquio del capo con un membro della famiglia, il primo all'aperto, il secondo in ufficio. Il canovaccio si ripete per ogni famiglia coinvolta dalla decisione dell'uomo.

La sequenza del licenziamento collettivo è centrale. Si ripete, come gli eventi tragici dell'umanità si ostinano a riproporsi nel tempo. Le parole dell'impresario scoprono di volta in volta nuovi particolari e nuove informazioni che non cambiano la sostanza dell'annuncio. Per ogni nucleo Bahrami rigira la scena posando la telecamera sugli sguardi dei componenti e riccorendo a diverse angolazioni per scrutare le reazioni al medesimo annuncio.

Nei volti degli iraniani, dei problematici curdi, degli sgraditi azeri, dell'amante del capo, dell'amministratore fidato, Bahrami svela il disincanto per una vita scevra di soddisfazioni.

È una lenta e progressiva inquadratura su un muro sbrecciato a portarci più indietro nel tempo. Con un gioco di flash back il regista iraniano ci propone il tempo delle promesse. Ogni capofamiglia si reca dal datore per chiedere soldi e favori per sé e la famiglia. Il padre di Gohar per mandarla via e non darla in sposa all'azero di cui è innamorata.

L'amante del capo affinché il figlio possa avere un documento ed iscriversi a scuola.

Il curdo chiede con forza un aumento di stipendio per i fratelli per poter "commutare" la pena di morte del padre.

Ebrahim l'azero vorrebbe sposare Gohar l'iraniana e scappare con lei.

Il capo non mantiene. "Lo stato ha promesso di aiutarci ma non l'ha fatto" chiosa durante la riunione che decreterà il destino di tutti.

Per ogni colloquio Bahrami si affida ad una metodica carrellata orizzontale che muove dall'ingresso luminoso per attraversare l'ufficio del principale. Il regista inquadra lo spazio sempre allo stesso modo. Prima l'uscio, poi nell'ordine la finestra, la sedia vuota nell'anticamera, quella dove di volta in volta si siedono Ebrahim, Loftollah e gli altri. Tocca quindi all'ingresso sulla camera da letto ed, infine, al padrone, dietro la scrivania, di finire nell'inquadratura della mdp. Il regista indugia sui mattoni come se i muri di questo desolato caravanserraglio potessero descrivere secoli e secoli di prevaricazioni ed infine getta uno sguardo dalla finestra, dietro i protagonisti, su un desolante ed arido presente.

Il bianco e nero accecante di Masud Amini Tirani non nasconde nulla. La fatica del lavoro, il sudore dei corpi, la polvere impiastricciata degli abiti. Sembra di sentire il caldo attanagliante che rende vano ogni sforzo, compreso quello di ribellarsi al copione.

La decisione è presa e nessuno può fare nulla. Gli operai preparano le loro cose per partire l'indomani alla ricerca di una minor sfortuna. Solo Loftollah rimane. A quarant'anni suonati, non corrisposto dalla bella Sarvar, e senza un motivo per andarsene rimane in quel luogo che gli ha sempre fatto da casa. Dopo aver preparato tutto per il passaggio di proprietà sceglie per sé la calda sepoltura ocra del mattone. Quella senza fine e senza ritorno che ricorda la sensazione di infinita sacralità donata dal bianco sudario che ogni sera ricopre l'intero corpo del capofamiglia nel momento del lungo riposo notturno. La pace interiore dell'uomo è profonda e senza fine ed è l'unico strumento possibile per combattere e vincere la battaglia contro un avverso destino.

 

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The Wasteland (2020): scena

 

 

 

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