Regia di Jasmila Zbanic vedi scheda film
In un paio di scarpe sportive che all'inizio del film un fratello aveva chiesto in prestito all'altro è racchiusa tutta la mostruosità dell'orrore che gli uomini sono purtroppo capaci di infliggere ai loro simili.
77ma Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2020 – In Concorso
La tragedia di Srebrenica, il peggiore crimine di guerra commesso in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale viene portata sullo schermi dalla regista bosniaca Jasmila Žbanic in quello che per me è un possibile Leone d'Oro.
La scelta - azzeccata - dell'autrice è di concentrarsi su una storia individuale e particolare nel quadro generale delle efferatezze che nel luglio del 1995 videro il massacro di ottomila abitanti della città bosniaca da parte delle milizie serbe. La storia è quella di Aida (Jasna Duricic), insegnante di inglese di Srebrenica, moglie del preside del liceo cittadino e madre di due ragazzi studenti, che nel corso di quei vorticosi mesi di guerra era stata assunta come traduttrice per il contingente dei Caschi Blu dell'ONU, quello che si coprì di vergogna per non essere stato in grado di proteggere i civili che gli erano stati affidati.
Il film ne mette in scena senza sconti la disorganizzazione, l'impreparazione di fronte al precipitare degli eventi, le disastrose esitazioni e l'arrendevolezza di fronte alla soperchierie dei miliziani di Ratko Mladic, permettendogli di dettare le condizioni e addirittura di entrare armati nella loro base ONU che ospitava gli sfollati, per controllare che all'interno non ci fossero nascosti nemici. La regista riprende soldatini olandesi coi calzoncini corti dall'aria di bambini spaesati e soldatesse ridicolizzate dalla truppaglia serba, immagini esemplificative dell'impotenza della più grande organizzazione internazionale. Mladic (Boris Isakovic) è invece rappresentato come un bullo rozzo, bugiardo e spaccone, eppure capace di soverchiare il comandante del contingente internazionale durante la farsa di “trattativa” con la popolazione locale in cui in realtà impose a tutti le sue volontà.
Questa colpevole confusione ed incapacità ci viene mostrata attraverso gli occhi increduli e terrorizzati ma determinati ed indomiti di Aida, decisa a fare tutto il possibile dapprima per fare entrare la famiglia all'interno della base che si credeva protetta, e poi per sottrarre il marito ed i figli dall'evacuazione organizzata dai serbi, cercando di farli inserire insieme a lei nella lista del personale ONU da far partire coi Caschi Blu. La macchina da presa si incolla ad Aida, che col suo pass può muoversi tra l'illusoria sicurezza dell'interno della base ed il terrore della folla ammassata all'esterno, facendoci partecipare attraverso il suo dramma umano al dramma storico che le infuriava intorno, fotografando il suo crescendo di delusione verso una comunità internazionale a cui si era anch'ella affidata e infine la sua rabbiosa disperazione di fronte ad una tragedia annunciata che eppure nessuno è stato capace di sventare.
Quello della Žbanic è un dramma teso ed implacabile pur nella sua lineare semplicità, e, facendosi certamente forza sulla consapevolezza del pubblico di assistere alla rappresentazione di fatti realmente avvenuti, riesce a convogliare con tutta la potenza del cinema la necessità di una testimonianza civile e la condanna morale della disumanità di una guerra etnica mirata all'annientamento di un'intera popolazione, in quello che anche la giustizia internazionale ha definito un atto di genocidio.
Il film riesce a commuoverci e ad indignarci pur mantenendo uno stile compatto, asciutto e a tratti documentarista, senza calcare la mano oltre il necessario su un orrore già evidente, e raccontando, più che il massacro stesso, gli eventi precedenti, contemporanei e successivi. Ad esempio l'esecuzione dei civili ammassati in una palestra rimane fuori campo, solo ascoltiamo il fragore raggelante del mitra mentre la macchina da presa inquadra la strada all'esterno.
Tanto dolorosamente composta quanto insopportabilmente straziante l'immagine delle donne che, anni dopo, in un hangar ispezionano mucchietti di ossa ricostruiti alla meglio e disposti in fila su teli, con a fianco i propri effetti personali, per riconoscere quel pochissimo che resta di mariti, padri, fratelli, figli. In un paio di scarpe sportive che all'inizio del film un fratello aveva chiesto in prestito all'altro è racchiusa tutta la mostruosità dell'orrore che gli uomini sono purtroppo capaci di infliggere ai loro simili.
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