Regia di Kornél Mundruczó vedi scheda film
Deludente e non così ben recitato, Pieces of a Woman è un film noioso e pieno di cliché di cui tra un paio d'anni tutti ci saremo dimenticati.
Un film piccolo piccolo, travestito da pellicola d'autore e con la pretesa di essere cinema con la C maiuscola. L'esordio in lingua inglese dell'ungherese Kornél Mundruczó è un'opera deludente, manipolatoria, noiosa e formulaica, che si segnala per le numerose incongruenze di una sceneggiatura zoppicante (opera di Kata Wéber, anche compagna nella vita del regista).
Lungi dall'essere toccante, il film sembra essenzialmente un susseguirsi di scene banalmente simboliche o che vorrebbero essere "forti" e "provocatorie", ma risultano solo gratuite, e momenti di scontro e tensione tra i protagonisti che paiono messi lì esclusivamente per dare occasione agli attori di mettersi in mostra.
Pieces of a Woman si apre con un breve antefatto, in cui conosciamo Sean (Shia LaBeouf) e Martha (Vanessa Kirby). Lui operaio che costruisce ponti, lei che svolge un lavoro non meglio specificato (possiamo ipotizzare che si tratti di una posizione nel middle management di un'azienda) in un ufficio dall'aspetto assolutamente asettico. I due sono una coppia in attesa della prima figlia.
Quando lo incontriamo per la prima volta, Sean scherza e dà ordini in un cantiere, dando l'impressione di essere un giovane uomo dai modi spicci, ma anche un futuro padre autenticamente emozionato e impaziente di incontrare la sua bambina.
Martha, invece, ci viene presentata alla festa organizzatale in ufficio l'ultimo giorno prima dell'inizio del suo congedo per maternità. La prima impressione che dà è tutto l'opposto rispetto a quella che aveva dato Sean: quella che vediamo è una giovane donna compita e abbastanza fredda, perfino un po' altezzosa.
Successivamente ritroviamo i due futuri genitori insieme presso una concessionaria, dove la madre di Martha, Elizabeth (Ellen Bustyn), sta firmando i documenti per l'acquisto di una monovolume per la famiglia che sta per formarsi. Mundruczó fa in modo di farci sapere immediatamente che l'anziana matriarca e il partner della figlia si detestano cordialmente, gettando le basi per uno degli sviluppi successivi della trama.
Una volta definiti i personaggi principali della vicenda e i loro rapporti, il setting si sposta a casa della coppia, che è anche il luogo in cui Martha ha deciso di dare alla luce sua figlia. Quando cominciano le doglie, Sean chiama l'ostetrica che avevano scelto per il parto, ma la donna è già impegnata con un altro travaglio e manda loro una sostituta, Eva (Molly Parker). Nel corso di un piano sequenza lungo oltre 20 minuti seguiamo a distanza ravvicinatissima tutto il processo che dalle prime contrazioni porta Martha a dare alla luce la piccola Yvette. Qualcosa, però, non va per il verso giusto e la neonata muore poco dopo il parto. La scena si chiude sull'arrivo di un'ambulanza, chiamata probabilmente troppo tardi.
Nel momento in cui la narrazione riprende sono già passati 20 giorni dalla tragedia e Martha sta rientrando al lavoro. Le cose tra lei e Sean stanno andando a rotoli per il loro modo diverso di fare i conti con un lutto impossibile da accettare e i due sembrano in preda a una forza centrifuga che li spigne sempre più a distanza l'uno dall'altra. Come se non bastasse, la madre di Martha si mette in mezzo, insistendo sull'avvio di un'azione legale per negligenza contro l'ostetrica, prendendo di petto la figlia in maniera non esattamente rispettosa né materna e, alla fine, letteralmente dando il benservito a Sean.
Mundruczó vuole mostrarci il dolore di Martha, un dolore intimo e profondo che lei affronta chiudendosi in se stessa e covando una rabbia che a volte esplode nelle interazioni con Sean e la madre. Allo stesso tempo vuole sottolineare la difficoltà di subire tutti i disagi del post partum, senza avere le gioie della maternità come contrappeso, ma avendo anzi un lutto da elaborare. E per farlo si avvicina a Martha, piantandole la macchina da presa addosso e restandole incollata in modo quasi morboso. Nulla ci viene risparmiato: Martha che guarda una bimba al centro commerciale e le scatta la lattazione; Martha che indossa assorbenti per puerpere e slip usa e getta; Martha che rientra a casa dal lavoro e si mette due buste di surgelati sul seno dolorante. Il crudo realismo, però, si mescola anche con l'ambizione "arty" e allora le inquadrature si popolano di simboli un po' ovvi: la palla da pilates che viene bucata con una sigaretta, correlativo della promessa di un ventre pieno di vita che si affloscia nella realtà di una morte inspiegabile; i semi di mela da far germogliare, come simbolo della vita che rinasce; la neve, segno del gelo nel cuore di Martha. Ed è in questa indecisione tra realismo e trasfigurazione simbolica che sta il problema di una pellicola che, se da un lato vorrebbe ispirarsi allo sguardo insensibile dei film di Cassavetes, dall'altro vorrebbe essere delicata, poetica ed evocativa, fallendo su entrambi i fronti.
A non aiutare Mundruczó è anche un cast troppo eterogeneo negli stili recitativi con i suoi tre protagonisti Kirby, LaBeouf e Bustyn che sembrano appartenere a tre film differenti.
Vanessa Kirby, in particolare, sembra non essere in grado di svolgere il compito a cui è chiamata: portare il film sulle proprie spalle, sollecitando l'empatia degli spettatori a cui si chiede d'identificarsi nella sua vicenda. Il problema è che la performance dell'attrice inglese è assolutamente algida e priva di qualsiasi sviluppo emotivo. Martha sembra fin dall'inizio una persona piuttosto fredda e a guardarla non si nota alcuna trasformazione radicale in lei che possa dare l'idea di quanto il dolore l'abbia sconvolta. Anche nella scena del parto, Kirby sembra sempre un'attrice di grande competenza tecnica, ma scarsa o nulla partecipazione emotiva. Urla, rutta, si contorce, ma tutto assomiglia più a un esercizio di stile: un compito svolto rispettando tutte le consegne, ma senza "calore". E dal parto in poi, salvo un paio di scatti d'ira in cui alza la voce, la sua interperetazione è solo un'accumularsi di sguardi persi ed espressioni impassibili, che forse sarebbero notevoli se, osservando le foto della stessa attrice sul tappeto rosso di Venezia o altrove, non ci si rendesse conto che quell'aria distaccata e un po' snob è proprio il suo atteggiamento naturale. Dopo averla vista fare più o meno le stesse cose nei panni di Estella in una delle tante versioni di Grandi Speranze e in quelli della principessa Margareth in The Crown, viene da chiedersi se più che un'attrice non sia una caratterista. Perfino il suo monologo in tribunale, che dovrebbe essere il momento in cui Martha fa i conti col dolore per iniziare per lo meno a immaginare di riprendere a vivere, lascia piuttosto indifferenti. Mai, infatti, si ha l'impressione di scorgere un lampo di autenticità. Interiorizzare così tanto la performance al punto da risultare intense pur con una mimica asciugata fino all'essenziale è un compito per attrici di un altro rango - gente come Isabelle Huppert, per intenderci - di cui la attualmente celebratissima e, a mio avviso, assai sopravvalutata Kirby non ha lontanamente la stoffa.
LaBeouf, d'altra parte, deve fare i conti con l'ingrata linea narrativa del suo personaggio, che è un gigantesco cliché. La sua performance è in puro stile method acting e contrasta con quella della Kirby in maniera stridente, forse a voler sottolineare la radicale differenza tra Sean e Martha (n.d.a. ma allora, visto che i due non sembrano avere alcuna intesa nemmeno nelle scene precedenti alla tragedia, viene da chiedersi perché siano finiti insieme...). Incapace di stare fermo, pare che la sua unica intenzione nell'interpretare ogni scena sia fare in modo di essere il più "visibile". Il che funziona nel piano sequenza del parto, quando la sua ipercinesia dà l'idea della concitazione di un prossimo papà notevolmente emozionato e ansioso di fare del proprio meglio per aiutare la sua compagna. E, tutto sommato, funziona anche in seguito, quando tutto questo muoversi in modo incessante dà l'idea di un animale in gabbia, prigioniero degli eventi e di un destino beffardo. Non è il meglio che si potesse chiedere, ma è abbastanza per creare una certa partecipazione emotiva tra Sean e lo spettatore. Per cui LaBeouf, pur risultando vagamente irritante, è sicuramente più efficace della Kirby.
Ellen Bustyn, invece, è davvero troppo anziana per essere credibile come madre di una poco più che trentenne ed è fin troppo arcigna e insensibile, priva di qualsiasi calore e partecipazione emotiva nei confronti della figlia. Un'autentica narcisista, insomma. E questo funzionerebbe a meraviglia, se si fosse in un altro film, in cui si esplorassero meglio i rapporti tra Elizabeth e Martha, ma non in questo, in cui la loro natura è solo suggerita en passant. Come se non bastasse, la sua interpretazione culmina in un monologo pacchiano e completamente fuori posto rispetto al tema del film, in cui si tira in ballo addirittura l'Olocausto in un modo gratuito e incongruente dal punto di vista cronologico della vicenda, e che sembra essere lì apposta per cercare di farle guadagnare una nomination all'Oscar, specie se si considera che l'attrice stessa sembra eseguirlo col medesimo intento. E - ciliegina sulla torta! - per accrescere ulteriormente il dramma quattro soldi e creare ancora più perplessità rispetto alle età dei protagonisti, il suo personaggio presenta anche i primi segni di demenza senile. Insomma, mancano solo le cavallette...
Dell'intero cast, l'unica che dia qualche segnale di autenticità è Molly Parker, che interpreta l'ostetrica Eva con delicatezza, molte sfumature e tanta umanità, passando da uno stato d'animo all'altro come chi si trovi a dover sul serio fare i conti con una situazione in continua evoluzione, inattesa e fuori dal proprio controllo. Spiace davvero, quindi, che dopo il parto praticamente scompaia per ricomparire solo - molto brevemente - verso la fine del film, quando ormai la pellicola è naufragata in una sorta di melodramma processuale degno di una puntata poco riuscita di Perry Mason.
In sintesi, Pieces of a Woman fallisce in quello che avrebbe dovuto essere il suo primo obiettivo: coinvolgere lo spettatore. Di conseguenza tutto diventa noia. Per di più, quasi paradossalmente, benché il film proceda con una lentezza esasperante, riesce comunque a trattare in maniera del tutto frettolosa alcuni degli aspetti che avrebbero dovuto essere centrali e finisce per essere solo una narrazione superficiale e insoddisfacente con troppa carne al fuoco e troppi personaggi assolutamente inutili.
Quando si sceglie di addentrarsi nel territorio accidentato del dolore, bisogna avere ben chiaro come farlo e Mundruczó non sembra riuscirci, confezionando una pellicola piatta e convenzionale, con un finale degno di una telenovela.
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