Regia di Kornél Mundruczó vedi scheda film
Venezia 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
La gestazione di "Pieces of a woman" è partita da lontano, esattamente dall'Ungheria dove Il regista Kornél Mundruczó e la sceneggiatrice Kata Wéber hanno concepito la storia. Ben presto però l'hanno adattata alle esigenze dei produttori americani che hanno fiutato la potenzialità del racconto e ne hanno finanziato la realizzazione mettendo a disposizione risorse e capitali propri. La lingua ungherese è diventata perciò quella dei padri pellegrini e lo scenario si è trasferito nella liberale Boston che "Manintown.com" cita per "eleganza europea e allure decisamente internazionale". Culturalmente vivace e dal cuore democratico Boston ha contribuito alla confortevole vittoria di Joe Biden nel Massachusetts (65,6% dei voti) tributando all'ex vice di Obama l'82,9% dei suffragi all'interno dei confini disegnati dalle placide anse dei fiumi Mystic e Charles. Un plebiscito. Difficile pensare a risultati diversi in una città famosa per le vecchie architetture europee, uno degli skylines più bassi d'America, e due delle università più famose al mondo, Harvard e MIT. La popolazione è colta, cosmopolita, liberale e ricca. Sopravvivono qui le più influenti famiglie alto borghesi dell'intero continente (come non citare i Kennedy) mentre da generazioni i cervelloni vi si trasferiscono attratti dalle opportunità di lavoro e guadagno offerte dagli atenei e dalle imprese che in quei luoghi fanno incetta di talenti.
Citando perciò un'intervista di "Cineuropa" ai due autori Boston è stato un suggerimento da parte di tutti i produttori. Hanno immaginato la storia e hanno detto: "Avrai bisogno di un posto che abbia conservatori e liberali, una città che abbia una grande comunità ebraica, e devi ambientarla in un luogo dove la nascita in casa è ancora possibile". Tutti questi aspetti hanno reso Boston la scelta migliore anche se poi il film è stato girato a Montreal, aggiungo io, e di conservatori ce ne sono relativamente pochi, dati delle ultime presidenziali alla mano.
L'argomento di "Pieces of a woman" non ha, dunque, più segreti. Il fulcro è il parto casalingo di Martha (Vanessa Kirby) assistita dal compagno Sean (Shia LaBeouf) e dall'ostetrica a domicilio (Molly Parker). Martha appartiene a quella ricca borghesia ebraica citata poc'anzi mentre il suo uomo, un operaio impegnato nella costruzione di un ponte sul Mystic, non ha il medesimo lignaggio e nemmeno la cultura impartita alla compagna.
La prima parte del film è votata alla rappresentazione della nascita in casa di Martha e Sean. Assistiamo ai dolori del parto di cui la casa sembra partecipe in ogni suo anfratto. LaBeouf conferisce al suo personaggio le giuste dosi di irruenta mascolinità e affettuosa tenerezza mentre Kirby restituisce al collega la pudica e caparbia volontà delle donne che mettono alla luce un figlio. Nelle luci artificiali della casa il travaglio si compie con il suo carico di drammaticità in un alone di incertezza paventata fin dalla telefonata della "midwife" che avvisa di dover mandare una collega al suo posto. Un brutto presagio su cui Kornél Mundruczó mantiene alta la tensione del racconto. Nonostante la "dilatazione" dei tempi il resoconto del parto secca la gola e aumenta il ritmo cardiaco con il suo carico di ansia e agitazione, effetti noti a chi ha assistito almeno una volta ad un parto complicato. Il mio unico figlio è nato dopo due giorni di contrazioni e con il cordone ombelicale avvolto attorno alla pancia come fosse un salame, cosa che ha richiesto un cesareo d'urgenza e infiniti minuti di agonia. Posso dire, senza peccare di presunzione, di avermi torturarato le mani immaginando di essere seduto sulla seggiola di una sala d'attesa anziché nella scomoda poltroncina di un cinema veneziano. Se nella prima parte lo script si concentra sull'idilio amoroso che ripiana le differenze caratteriali e culturali tra i protagonisti la seconda parte scava attorno al vuoto venutosi a creare tra l'uomo e la donna. Il ponte in costruzione scandisce i tempi del racconto con il suo lento ma progressivo incedere verso la sponda opposta del fiume e diventa simbolo di una frattura che nessuno riesce a colmare, non abbastanza in fretta, quantomeno, da rendere i contrasti nella coppia conciliabili. C'è un fiume che separa le sponde opposte dei loro cuori e non ci sono calcestruzzo e funi d'acciaio in grado di ricompattare quel rapporto spazzato via dalla risonanza prodotta da un vento troppo forte e basi d'ancoraggio troppo deboli per garantire all'amore di sopravvivere alle oscillazioni del destino. Le carezze e le coccole dell'inizio si tramutano in schermaglie, sottili violenze ed abusi emotivi. L'ardore si consuma lasciando le ceneri di un'apatia che sentenzia la diversa metabolizzazione della perdita. Sean vorrebbe ricominciare e lasciarsi tutto alle spalle ma al contempo cede alle lusinghe della madre di Martha (Ellen Burstyn) che da buona americana crede negli avvocati, nei tribunali e nei risarcimenti. Martha, a contrario, vorrebbe disfarsi della 'materia" e far crescere dentro di sé il "ricordo" indelebile della vita cresciuta dentro il suo corpo per nove mesi e sopravvissuta per pochi minuti al di fuori della culla protettiva dell'utero.
Grandi interpretazioni e una felice caratterizzazione hanno premiato il lavoro del regista magiaro ma c'è un "ma" che forse deriva da quei problemi di riscrittura citati da Kata Wéber. Il personaggio della vecchia matriarca accecata dal desiderio di rivalsa legale mi ha lasciato perplesso. E non per la necessità di farsi giustizia in tribunale, soprassedendo, per altro, alle esigenze emotive della figlia, quanto per la tesi che tale rancore e tale desiderio di riscatto siano il frutto delle privazioni vissute nei campi nazisti come la stessa anziana signora lascia trapelare nello scontro rivelatore con la figlia, accusata dalla madre, durante l'ultima riunione familiare, di essere senza spina dorsale. Il passaggio non mi ha convinto così come non mi ha entusiasmato l'idea di giustificare l'atteggiamento egoista di Elizabeth con i soprusi subiti in giovinezza. Non ho visto la necessità di rivangare le atrocità dell'Olocausto in questo contesto e a fronte di tale maliziosa gratuità nel rispolverare l'argomento (le divergenze tra madre e figlia potevano originare dal diverso modo di intendere la vita e nulla più) il personaggio di Elizabeth ne è uscito svilito. Il film sembra veicolare l'idea dell'ebreo, sopravvissuto alla Shoah, che, insensibile ed ancorato al proprio passato d'ingiustizia, cerchi il pretesto di imporsi e vendicare quanto subito. Molte persone virtuose, a contrario, avendo dedicato la propria esistenza alla crescita di semi di giustizia e memoria, raccolti nel momento della disperazione e, successivamente, coltivati per promuovere un cambiamento del pensiero comune, mi lasciano pensare all'esatto contrario. Mi resta il tarlo di un passaggio nebuloso mentre ho ben chiaro che nel film di Kornél Mundruczó spetta a Martha gettare sul terreno fertile dell'aula di tribunale quei semi destinati a trasformarsi in perdono. Con un gesto coraggioso Martha incolla i pezzi rimasti su quel letto di casa che le ha dato e preso tutto. Pronta a voltar pagina, a perdonare chi non l'ha compresa, percorrere nuovamente quel ponte crollato, che un anno di lento lavoro ha ricostruito, per gettare le basi della sua nuova e più matura esistenza riaperta alle relazioni familiari e sociali.
Intanto in un letto di cotone in frigorifero giacciono i semi di una mela. Germogliati nel tempo della maturazione di Martha diventano un bellissimo albero su cui si arrampica una vivace bambina dai capelli chiari. Il profumo di mela inonda i titoli di coda propagando la fragranza di un amore che ha smesso di far male ma non ha smesso di farsi sentire nel rumore dei rami sinuosi nella brezza del vento.
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