Regia di Majid Majidi vedi scheda film
Venezia 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Un quotidiano nazionale, nel liquidare tutti i titoli del concorso veneziano come paccottiglia da cui prendere le distanze, ha espresso tutta la sua superficiale supponenza nei confronti di 'Sun Children", film iraniano diretto da Majid Majidi, bollato come film di regime. È palese che Majidi sia stato scelto spesso (ben cinque volte) per partecipare alla corsa agli Oscar per l'Iran ottenendo anche l'agognata candidatura nel 1999 con "I ragazzi del paradiso". Ed è altrettanto vero che, mentre altri autori dovevano convivere con le restrizioni imposte dal regime, facendo a botte con esso pur di distribuire i propri film in Occidente, egli abbia presenziato con costanza, con i suoi lavori, al Fajr Film Festival, il principale evento cinematografico del suo paese che si tiene in febbraio in concomitanza con i festeggiamenti della rivoluzione islamica. Majidi ha partecipato sporadicamente ai concorsi di Berlino, Cannes e Venezia e spesso in "seconda visione". Molto più assiduo a Toronto e in tanti altri festival internazionali che gli hanno accordato tutta la loro stima. Benché abbia spesso giocato comodamente in casa anziché spingersi al di fuori dei confini nazionali a sia stato spesso preferito dalle istituzioni per rappresentare l'Iran a Hollywood è sufficiente una riflessione intorno alla storia cinematografica di Majidi per etichettare "Sun children" come film di propaganda? Io credo che il sedicente giornalista sia stato vittima di preconcetti e pregiudizi politici che hanno inficiato il giudizio complessivo sulla kermesse, non solo del film in oggetto. Ma ciò che è più grave, a mio avviso, è la sensazione che lo scribacchino non abbia visto i "I ragazzi del sole" oppure abbia imbastito le sue argomentazioni sulla visione di uno spezzone di film, pratica, per la verità tanto discutibile, quanto assai diffusa a Venezia dove i giornalisti spesso escono dopo aver visto "quanto basta" a tessere le loro trame. È questa la spiegazione più plausibile perché volendo proprio fare l'avvocato del quotidiano il film poteva apparire a metà proiezione come una bella storia di redenzione studentesca ai margini di Teheran. Il racconto è, infatti, ambientato in una scuola "privata" che accoglie bambini di famiglie indigenti nella periferia della capitale. È lì che si iscrive il dodicenne Ali insieme ad altri tre amici di scorribande. Con la promessa di danaro e telefonini un vecchio uomo d'affari del quartiere li ha convinti, approfittando dalla loro sostanziale ingenuità, a frequentare le lezioni e scavare nelle viscere delle fondamenta per recuperare un presunto tesoro nascosto nelle fogne ai confini con il vicino cimitero. Ci sarebbero le premesse per una storia di riscatto sociale per quattro bambini entrati nell'istituto per rubare e finiti per imparare grazie alla guida di un insegnante altruista invece Majidi sceglie la strada più coerente dell'analisi del paese attraverso quella più dettagliata della realtà in cui versano le scuole e gli studenti più deboli. Si può discutere della cifra stilistica nella regia di Majidi ma non credo si possano processare le intenzioni dell'autore che lamenta come non ci siano fondi pubblici per l'istruzione. Se fosse un film di regime la scuola avrebbe fruito della solerte compartecipazione alle spese da parte del ministero invece l'istituto chiude non potendo che raccogliere pochi spiccioli dai privati. Majidi esprime la propria amarezza nei confronti della politica nella discussa figura del preside che, candidato alle elezioni locali, cerca nella scuola l'appoggio e la popolarità utile ad ottenere la poltrona salvo poi, in un secondo momento, stracciare i volantini preparati per perorare la propria candidatura, profondamente deluso da istituzioni che chiedono di essere servite ma non muovono un dito per i cittadini bisognosi. Se poi mostrare ragazzini di strada, abbandonati a se stessi mentre rubano nei centri commerciali o vendono abusivamente nella metro è il metodo più adatto per declamare il sistema paese allora dovrò ripassare un po' di storia della propaganda nei regimi politici. Se anche fosse il regista un conservatore, quindi lontano dalle posizioni "moderate" del presidente Rouhani, il suo intento screditante produrrebbe un risultato facilmente equivocabile agli occhi di un pubblico cinematografico poco avvezzo alla politica internazionale e per nulla pratico di quella, complicatissima, iraniana. Se così fosse la critica di Majidi risulterebbe comprensibile solo all'interno dei confini nazionali mentre verrebbe vista come un attacco al regime/paese all'estero. Ma sempre di una critica si tratterebbe, quella verso il regime o quella verso una corrente interna allo stesso. ProbabiImente però il nostro giornalista basa il proprio giudizio sulle vecchie glorie del paese, l'ayatollah Khomeyni o il presidente ultraradicale Ahmadinejad assai invisi in occidente ma da tempo morti o sepolti. La critica del regista potrebbe essere politicamente faziosa, concordo, ma in ogni caso non espressione dell'attuale impronta del regime da cui prende le distanze dipingendo un quadro desolante di bambini abbandonati e traditi. Dei quattro ragazzini che compongono il gruppo di ladri archeologi solo uno di loro sembra poter ottenere una chance di emancipazione. Per gli altri tre restano la delusione di un tesoro che diventa polvere tra le mani, la violenza di un padre padrone e l'espulsione dal paese che pregiudica per sempre un'istruzione basata sul merito. Il finale è ben poco consolatorio. Farà discutere la presunta vena ricattatoria che lo stesso giornalista tira in causa nell'articolo. Cos'è ricattatorio? Aver raccontato di ragazzini di strada nelle vie di una città da oltre 8 milioni di abitanti? Majidi sembra abbastanza attento a mescolare dramma ed ironia senza ricorrere a tragedie tali da suscitare intense e facili emozioni. Anzi, rispetto a "Cafarnao", altro caso molto discusso di pochi mesi fa, preferisce un finale più aderente alla realtà e rispettoso di chi non ce la fa ad emergere dalle acque stagnanti della quotidianità. Rispetto al film di Labaki semmai Majidi sembra più restio ad abbandonarsi all'analisi nuda e cruda del fenomeno spaziando tra stili e generi mortificando lievemente la denuncia di cui è pregno il suo lavoro. Forse troppo preso dalla spettacolarizzazione delle gesta dei ragazzini, non sempre riuscita (vedasi la scena di inseguimento nella metro tecnicamente poco riuscita tanto da sembrare un pastrocchio digitale, palesemente finto), Majidi ha perso di vista la rappresentazione del vero ma non ha dimenticato di sviluppare il proprio mantra intorno alla candida fanciullezza che si infrange nel muro spigoloso di adulti avidi e meschini così come non ha mancato di rappresentare un mondo di adulti impotenti ed ingenui di fronte alle criticità di una vita di strada che piega la schiena a chiunque lacerandone le speranze. Consiglierei al signor giornalista di vedere il film fino in fondo e di discutere semmai di pregi e di difetti dell'opera senza ridicole presunzioni. Premio Mastroianni al giovanissimo e lentigginoso Roohollah Zamani come miglior attore emergente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta