Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film
Kurosawa è abituato ad affrontare gli stilemi dei generi cinematografici filtrandoli sempre col suo punto di vista, sempre riconoscibilissimo, che consta dei suoi prospettici campi larghi e dei lenti insinuanti movimenti di camera a illuminare gli angoli bui dell’immagine (e dell’essere umano). Qui tocca allo spy-movie storico, dopo il sci-fi degli ultimi film e dopo i suoi classici thriller/horror/yakuza, ed è l’occasione per mettere in scena un film che attinge dal cinema classico giapponese (si vedono i titoli di testa di un film di Sadao Yamanaka su un grande schermo) e da quello americano (quello delle grandi star, in grado di gestire un’inquadratura larga laddove tutti sceglierebbero un piatto campo/controcampo). Sebbene il film, specie nella prima parte, possa vantare una patina televisiva che però è la televisione del solito Kurosawa (grezza, immobile, inquietante), le scelte di regia sono in realtà squisitamente cinematografiche (il dolly laterale sui soldati, la sequenza del film muto girato nel film stesso), e alludono a tensioni di svariati generi: sentimentali, storiche, anche sottilmente erotiche. Ovviamente cinematografiche. Ma come se non bastasse, il film è anche una pugnalata nella memoria giapponese collettiva, una resa alla sconfitta dopo la Seconda Guerra Mondiale e un lento degenerare verso l’autodistruzione che neanche la verità potrebbe rallentare o ritardare. Un film sempre più cupo che più va avanti più diventa Kurosawa, ed è chiara e distinta la raffinatezza di un autore che fa cinema da decenni come respira.
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