Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Haifa è uno dei luoghi più openminded dello Stato di Israele. E nel nightclub in cui Gitai decide di ambientare il film si potrebbe incontrare chiunque: donne e uomini, ebrei e arabi, giovani e vecchi, eterosessuali e omosessuali. La camera di Gitai, abitualmente coinvolta in pianisequenza vorticosi, cerca di seguire alcuni di questi esseri umani, cogliendoli in confronti talvolta sentimentali, talvolta politici, talvolta generici, senza un vero e proprio filo logico che li leghi se non la loro presenza nel luogo. L’aspetto più affascinante di un film bistrattato dalla critica come Laila in Haifa sono le illusioni disattese delle unità di tempo, spazio e azione. Se nella prima parte del film prevalgono panoramiche intere sui personaggi che impariamo a conoscere, più avanti si lascia più spazio a convulsi ma rigorosi primi piani che rendono impercepibili le coordinate spaziali in cui i personaggi si muovono. Ma pure certe ellissi nascoste, che teletrasportano un personaggio da un luogo all’altro in pochi istanti, come in un impossibile jump cut, mettono parecchio in crisi l’attenzione dello spettatore, che intanto si trova di fronte anche situazioni un tantino imbarazzanti (dai due che decidono di accoppiarsi nell’auto all’ingresso del locale come se nessuno li vedesse, fino a quelli che si lanciano dal nulla in riflessioni gratuite sui massimi sistemi). Ma questa enorme capacità sintetica di Gitai di dialogare dialetticamente con spazi e volti, costruendo identità teatrali ma disattendendo parecchie delle regole del teatro al cinema, sembra avere dei segreti che probabilmente richiedono più umiltà e attenzione a uno spettatore disabituato. Perché Laila in Haifa parla di barriere, di confini e di limiti (fra sessi, fra popoli, fra singole identità), e gli si può al massimo imputare un certo anacronismo nella voglia di dare troppo significato (politico?) a qualsiasi dettaglio. Perché l’emozione di fronte ai miracoli di quei pianisequenza è difficile nasconderla.
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