Trama
Centinaia di spettacoli, una miriade di compagnie teatrali, di parole, di incontri, passioni, delusioni, tempeste. Dal teatro politico/popolare dei primi anni Settanta al teatro delle compagnie e al Terzo Teatro degli anni Ottanta, dal teatro dell'attore al teatro della performance e, infine, al Festival senza teatro: il festival delle arti. Santarcangelo Festival è uno specchio fedele delle tendenze dell'arte performativa dell'Italia e del loro cambiamento, è un pezzo significativo della nostra storia, artistica, politica e sociale.
Curiosità
La parola ai registi Michele Mellara e Alessandro Rossi
«Noi lavoriamo sui collage, sugli accostamenti emotivi, a volte pop a volte classici, di immagini e musica, di suoni e parole poetiche, di volti e brevi racconti del quotidiano. I luoghi parlano assieme alle persone e agli archivi. Santarcangelo Festival è un affresco iniziato 50 anni fa che abbiamo sottoposto a verifica cinematografica in questo suo importante compleanno affinché l'affresco - di una città, di una comunità, di un ideale - continui a vivere negli anni. Il teatro è il demone sepolto di ogni civiltà.
Il documentario intreccia più trame, cresce attraverso un coro di voci. In primo luogo i direttori che rileggono loro stessi, le loro scelte, i loro dissidi con l'organizzazione del festival. Le voci dei direttori si confondono con i suoni degli spettacoli, con frammenti di memoria oggettiva (poster, fotografie, cataloghi). Poi ci sono quelli che sono sempre rimasti, che hanno visto il festival cambiare pelle e lo hanno aiutato nella "muta". Sono i dirigenti, gli amministratori, che abbiamo riunito in un luogo simbolo del festival, il Ristorante Zaghini, e che, come un piccolo e divertito coro teatrale, raccontano le peripezie, gli sbandamenti e le grandi invenzioni delle varie edizioni del festival. Ci sono poi le nostre riprese del paese dormiente durante il letargo invernale in attesa che il festival si compia, e delle grotte della memoria sulle quali pareti esplodono visioni teatrali del passato più prossimo. Ma il documentario vive anche grazie ai colori dei mille spettacoli che si rianimano nei repertori filmici e video. L'archivio va maneggiato con cura. Ci si avvicina sempre con una certa prudenza e, immediatamente, si è colti da una serie di domande che determineranno, almeno in parte, il rapporto creativo che si verrà a creare con i materiali girati da altri. Una delle prime domande che affiora sempre è la seguente: chi l'avrà girato? A volte ci si imbatte in registi noti, ma molto più spesso i registi – o in molti casi i cineamatori – rimangono figure misteriose, delle quali è quasi impossibile sapere alcunché; biografia e provenienza sono incerti, ciò che si sa di loro passa attraverso le loro immagini. La pasta filmica, il supporto usato – videocamera, cinepresa, super otto, macchina fotografica digitale – già determina il perimetro del visivo, una forma che diviene contenuto nella qualità di ciò che si è filmato: pixel che compongono il frame, grana della pellicola, righe e sganci dei supporti analogici, luminosità e nitidezza del digitale più recente. Qualità visiva in relazione al supporto quindi. Poi il soggetto. Chi o cosa è stato ripreso. Ci sono materiali in grado di mettere in scena un "interesse" forte del regista, ed altri che invece sono solo di servizio, telecronache senza sensibilità o conoscenza del soggetto ripreso. Forma e contenuto si sposano. Matrimoni riusciti, a volte, altre molto meno.
Il gioco è quindi caratterizzato da un dialogo tra chi guarda oggi e chi filmò e montò in passato. Da questo dialogo – emotivo e intellettuale insieme – il ricercatore-regista, come un chimico in laboratorio, dovrà distillare le composizioni alchemiche necessarie al suo racconto. Sarà quindi necessario porsi altre domande: Come usare questo materiale? È lecito rimontarlo? Devo attenermi alla fonte documentale così come mi si presenta oggi o posso invece, avendone interpretato l'essenza, la motivazione, rimontarla, rimetterci le mani, impastarla con altro? A queste domande ne seguiranno altre, di carattere formale e contenutistico e non finiranno mai di perseguitare il ricercatore-regista fino alla fine del suo lavoro, e probabilmente anche dopo.
Raccontare a partire da una mole eterogenea di materiali d'archivio cinquant'anni di storia del Santarcangelo Festival e, con esso, oltre che una parte della storia del teatro italiano, anche un pezzo di storia sociale, culturale e politica del nostro paese, ha richiesto un'interpretazione polifonica del visivo del passato».
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