Regia di Ivan I. Tverdovskiy vedi scheda film
Nel 2002 a Mosca il teatro Dubrovka fu il set di un attacco terroristico: i separatisti ceceni entrarono nel teatro durante un musical e tennero in ostaggio gli 850 spettatori circa per più di due giorni.
Oggi basta cercare su internet le parole chiave dell’evento per essere catapultati nei dettagli più piccoli e precisi delle tantissime testimonianze dei sopravvissuti; ma nonostante questo e nonostante l’alone di ambiguità legato all’evento - soprattutto alla sua conclusione avvenuta tramite inserimento di un gas nocivo nell’impianto di ventilazione del teatro - il fatto di cronaca è stato quasi del tutto dimenticato dall’opinione pubblica mondiale, insieme ai tanti attacchi terroristici che la Russia ha subìto all’inizio del nuovo Millennio.
Il film di Ivan Tverdovsiy si interroga su cosa oggi, dopo 18 anni, voglia dire ricordare, e lo fa creando un film dotato di una struttura decisamente anomala: a parte il segmento iniziale e quello finale, il film è interamente ambientato sulla platea del teatro Dubrovka, durante una serata commemorativa. Il regista è ben cosciente del potenziale di questo setting: la cinepresa non esita a bloccarsi spesso estatica di fronte alla platea, trasformandola in un nuovo palco, gettato di riflesso sul pubblico della sala cinematografica in cui può essere eventualmente proiettato il film stesso. Su quella platea, un gruppo di sopravvissuti ricorda tutti gli eventi di quelle giornate, guidati da una suora anch’essa sopravvissuta alla strage in cui perse il figlio e diventata monaca subito dopo. Tornata sul luogo dei fatti, la donna si ritrova ad affrontare il dramma del marito sopravvissuto ma paralizzato e della figlia anch’essa sopravvissuta ma abbandonata, e dunque incapace di perdonare la madre. È così che pubblico e privato diventano irrimediabilmente un tutt’uno, azzerando quella distanza apatica che un semplice documentario di interviste difficilmente azzera. Ma il bello del film è soprattutto che per tutta l’ora e mezza in cui siamo “presi in ostaggio” dentro il teatro, il dramma privato si interrompe (e in realtà prosegue in quello collettivo), e assistiamo a una seduta terapeutica di gruppo, una vera e propria “performance della memoria” in cui un’intera situazione viene ricostruita di fronte ai nostri occhi tramite la parola. Il confine col documentario si fa ovviamente impercettibile, tanto più che è come se la protagonista, trasportando il microfono qui e lì, intervistasse ogni partecipante insistendo affinché cerchi di ricordare anche il dettaglio più insignificante.
Tverdovskiy sceglie una macchina da presa quasi sempre immobile o sospesa su una steady-cam che fluida segue i personaggi e ondeggia fra i sedili. Non cerca minimamente di ricostruire filologicamente gli eventi, ma segue le oscillazioni emotive di tutti coloro che intervengono a parlare, creando nel vuoto intorno a loro il fantasma della strage: per di più, la suora procura dei manichini per riempire i sedili vuoti e riporvi le persone che effettivamente erano sedute in quel punto e che sono assenti (o perché morte o perché disertori dell’evento commemorativo).
Intanto però il vero fantasma che si va ricostruendo su quella platea-palco non è quello della strage, ma quello dell’utilità dell’evento commemorativo: in che misura ripercorrere i singoli dettagli può essere utile a esorcizzare un evento? Cosa dev’essere ricordato e cosa può essere dimenticato? Il film non dà una risposta, ma appesantisce la domanda quando la protagonista resiste alle pressioni del guardiano notturno chiudendo se stessa e gli altri partecipanti dentro il teatro, “riprendendosi in ostaggio” e proseguendo nel folle e sadico rituale per “arrivare fino in fondo”. Ma il fondo non si vede, al suo posto c’è il baratro che si para dinnanzi ai protagonisti e allo spettatore. Finché l’evento non viene annullato con la forza, e gli eventi privati della donna precipitano.
Il film si chiude con uno dei finali più umani e pessimisti che siano capitati al cinema negli ultimi tempi. Forse perché rivela che gli effetti a lungo termine di una strage sui sopravvissuti non sono legati al trauma in sé, ma sono nella frattura che si crea nella propria etica e nel proprio codice di valori. Per farla breve: alla fine non è neanche più chiaro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, in che misura possa essere compreso e accettato lo sfogo di una vittima, e in che modo nella psiche del singolo possano aiutare la Storia e la memoria. È così che il piano sequenza finale, girato improvvisamente con una camera a mano mobilissima, è una vera frattura che getta spettatori e personaggi nel baratro del lutto appena subìto senza redimere nulla e nessuno, concedendo soltanto la pietà dei vivi e il silenzio dei morti.
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