Regia di Ameen Nayfeh vedi scheda film
Duemila anni di distanza dal discorso di Calgaco, capo dei Britanni, alle sue truppe in assetto di guerra.Allora erano i Romani, hanno fatto scuola al mondo intero.
Metti un muro, un giorno.
Chiamalo "barriera di separazione", e siamo fra Israele e CisGgiordania; chiamalo muro e basta e siamo nel Donbass, non lontano da Lysychansku, dove un gruppo di soldati ucraini uccisi qualche settimana fa mostra di sé per foto ricordo; metti muri a Belfast sopravvissuti a tutte le domeniche di sangue e ancora in bella vista per chi vuol cimentarsi in urban graffiti; mettine uno fra Ungheria, Serbia e Croazia, una rete metallica ma sempre barriera è; mettine uno fra Messico e States, “barriera di separazione tra Stati Uniti d’America e Messico”, ma viene anche detta “muro di Tijuana”, dal nome dell’omonima città.
E ci fermiamo qui, per non citare la madre, anzi il padre di tutti i muri, caduto nel 1989 dopo 28 anni di onorata carriera, troppo noto per aver bisogno di ricordini.
Muri, “una doppia prigione, i prigionieri stanno dall’una e dall’altra parte ”disse
Koudelka, fotografo, quando andò a fotografare i luoghi della Terra Santa.
Dieci anni fa, ora il muro ne ha venti, fu tirato su nel 2002, evviva gli anniversari.
“L’insostenibile leggerezza della fotografia” è l’ossimoro che si traduce in atto ogni volta che l’obiettivo è messo a fuoco e la realtà diventa immagine.
Immagine fotografica o cinematografica, cambia poco.
La mano del regista fa la differenza. Come quella del fotografo.
Koudelka borbotta: “Merda, come si fa a distruggere un paesaggio così bello con questa merda? “.
Costretto ad abbandonare patria e famiglia a vent’anni dopo l’invasione di Praga, e a viverne altri venti dietro il muro di Berlino, il Muro per lui è rimasto un non rimosso, qualcosa che lo spinge ancora con le sue macchine ad essere un testimone, per dire al resto del mondo che c’è un arbitrio, un orrore, un cannone puntato contro un albero.
Sì, un albero.
O su bambini che giocano, o su marito e moglie costretti uno di qua, l’altro di là, per lavoro, perché lui non vuole il permesso di lavoro israeliano in quanto palestinese e lei non può restare senza il suo lavoro in Israele, tre figli devono pur crescere e mangiare.
E allora ci si incontra a intervalli, uno a casa della nonna, gli altri in affitto di là dal muro, ci si saluta la sera dalle terrazze di qua e di là (solo duecento metri) accendendo e spegnendo luci a intermittenza. Come in guerra, come i segnali Morse, buonanotte, ti voglio bene.
Fantascienza? Sì, applicata alla quotidianità.
Fantascienza, come doverne fare 200 di chilometri, pagando profumatamente i contrabbandieri che sui muri hanno sempre lucrato, e superare quel muro il giorno che il documento è scaduto e ti rimandano indietro e tu devi andare di corsa in ospedale dove c’è tuo figlio preso sotto da una macchina.
Non c’è bisogno di missili, bombe, raid aerei per parlare di muri, in CisGiordania è convivenza quotidiana, quasi normale, ti adatti, se vuoi passare fai una fila sterminata che scorre a passo di lumaca dentro un gabbione, poi metti la tua impronta, se non passa fai vedere il cartaceo del permesso, passi al check point e finalmente ce l’hai fatta. E vai a lavorare da manovale.
Opera prima scritta e diretta dal giovane regista arabo Ameen Nayfeh, presente due anni fa in Mostra a Venezia, in parte trascurata dal pubblico dei red carpet e della follia presenzialista, 200 metri è uno straordinario j’accuse, e come quello destinato a pochi fedeli seguaci.
La storia non è una storia, è la corsa di un padre verso il figlio, ha perfino un lieto fine, anche se il percorso è disseminato di intoppi.
Aggirare il muro lungo la linea collinare di confine in pulmino carico di altri sconosciuti, cambiare macchina per incomprensibili tattiche dei contrabbandieri, incontrare brutti ceffi, magari anche armati, fare soste infinite con il nervosismo che cresce, il caldo che soffoca, chiusi perfino nel bagagliaio, se necessario, fermarsi ai posti di blocco e doversi inventare qualche strategia per passare.
Storie di ordinaria follia, Nayfeh non enfatizza ma riesce a tenere in piedi una tensione che torce lo stomaco, molto più che vedere spari, bombe e quant’altro.
C’è un popolo che sembra destinato a restare così per l’eternità, hanno i loro terroristi, certo, le ragioni sono sempre da due parti.
Ma il nostro Mustafa, la moglie, i figli, il giovane Rami che vorrebbe cambiar vita, i due fidanzatini, lui palestinese lei tedesca con la videocamera che tanti guai creerà, che male hanno fatto? Perché alcuni coloni con i bravi figlioletti li insultano al loro passaggio in auto?
Territori occupati, li chiamano, bruciati dal sole, un nastro di strada serpeggiante e pochissime auto.
“Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace”
Duemila anni di distanza dal discorso di Calgaco, capo dei Britanni, alle sue truppe in assetto di guerra.
Allora erano i Romani, hanno fatto scuola al mondo intero.
“I Romani, la cui arroganza inutilmente cercheresti di evitare con la condiscendenza e la modestia. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che tutto devastano sono venute a mancare le terre, scrutano anche il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, ambiziosi, loro che non l'Oriente, non l'Occidente ha saziato: loro soli bramano con pari passione le ricchezze e la povertà di tutti. Rubare, trucidare, rapire, con false parole lo chiamano impero, e dove fanno deserto, la chiamano pace. La natura ha voluto che a ciascuno siano carissimi i propri figli e parenti: questi vengono portati via con l'arruolamento per essere schiavi altrove; mogli e sorelle, anche se sono sfuggite alla libidine dei nemici, vengono disonorate sotto il nome di amici e di ospiti. I beni e gli utili della buona sorte sono consumati per il tributo, il lavoro dei campi e il raccolto dell'annata per le contribuzioni in frumento, gli stessi corpi e le mani sono logorati tra percosse e insulti per bonificare selve e paludi. I figli degli schiavi, nati per la schiavitù, sono venduti una volta sola e vengono nutriti volontariamente dai padroni: la Britannia ogni giorno compra la propria schiavitù, ogni giorno la alimenta.”
Tacito-Agricola-Discorso di Calgaco (Tac. Agr. 30-32)
www.paoladigiuseppe.it
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta