Regia di Marco Bechis vedi scheda film
Siamo in Argentina, durante la dittatura militare del generale Jorge Rafael Videla, che ha retto le sorti politiche del paese dal marzo del 1976 al dicembre del 1983. È in questo contesto che vive Maria (Antonella Costa), una maestra elementare impegnata nel sociale nei quartieri più poveri di Buenos Aires. A causa delle ristrettezze economiche, la donna decide di affittare alcune camere della sua casa. Una di queste viene occupata da Felix (Carlos Echevarria), un ragazzo dall’atteggiamento timido che con Maria inizia una relazione amorosa. A causa delle sue simpatie per un gruppo politico che si oppone al regime di Videla, Maria viene un giorno prelevata dalla polizia e portata al Garage Olimpo, uno dei tanti luoghi usati dalla dittatura militare per tenere segregati i prigionieri politici e sottoporli ad atroci torture. Qui la ragazza scopre che un suo carnefice è una persona che conosce molto bene.
“Garage Olimpo” è il secondo film di Marco Bechis, che dopo il sorprendente “Alambrado”, un film impregnato di polvere e vento ambientato in quelli che sembrano i confini della fine del mondo, si conferma un autore capace di fare della gestione dello spazio un fondamentale strumento narrativo. Infatti, sia negli spazi che si aprono all’infinito del bel film d’esordio che nelle anguste stanze del garage Olimpo, la gestione di ogni inquadratura regala allo sguardo delle soluzioni visive sempre coerenti con la “poetica” del narrato. Marco Bechis ha vissuto in prima persona i drammatici eventi documentati nel film, ed è stato solo grazie al passaporto italiano che ha potuto avvalersi dell’espulsione e quindi sottrarsi da un destino . Ma gli è evidentemente rimasta l’urgenza di raccontare la tragica vicenda dei desaparecidos, puntando su quella che lo stesso autore ha definito un “attualizzazione della violenza dello Stato contro i cittadini”. Come se si trattasse di una storia che ancora “oggi avviene in qualche parte del mondo”. Infatti, la trama che vede come principali interpreti Maria e Felix è solo un pretesto narrativo, perché ciò che conta è entrare dentro il dramma della prigionia facendocene avvertire tutto il carico di disumanità che riesce ad evocare. Le loro condizioni esistenziali servono solo per dare uno sfogo lineare allo sviluppo filmico, perché l’essenziale rimane il documentare l'arbitria impunità che sempre i più forti fanno valere sui più deboli.
La particolare originalità del film sta nel non limitarsi alla sola esposizione della violenza per mano degli aguzzini, ma di farcela avvertire attraverso l’adozione di precise scelte stilistiche. Scelte che tendono soprattutto a risaltare quei moventi psicologici usati dalla dittatura militare per legittimare sé stessa e terrorizzare ogni anelito di libertà.
Sopra ogni cosa c’è la scelta di farci entrare nella storia Argentina di quegli anni senza mai raccontarcela per davvero. I fatti rimangono fuori campo, ma basta la relazione che intercorre tra vittime e carnefici per farli entrare prepotente dentro gli spazi stretti e inospitali del Garage Olimpo. E i fatti ci dicono che quelli furono anni di terrore per chiunque osasse mostrare una qualsiasi forma di dissenso nei confronti del regime militare, furono anni bui per chi non aveva forza sufficiente per fare luce sulla vigliaccheria dilagante. La paura prese il sopravvento, trasformando il diritto di esprimere libere opinioni nel pericolo di vedersi spogliato di ogni diritto. Furono gli anni passati alla storia per la trista vicenda dei desaparecidos, le migliaia di vittime innocenti che il regime militare fece sparire senza neanche che i propri familiari potessero avere un corpo su cui piangere il proprio dolore. Ecco qui in filigrana uno di quei moventi psicologici a cui già si è accennato. Se non esiste un corpo non è possibile certificarne la morte. E se non si può certificarne la morte quel corpo diventa semplicemente quello di una persona scomparsa. E se una persona è data per scomparsa allora vuol dire che chi la cerca è indotta a chiedersi perché ha voluto scomparire. Perché così si è indotti a ragionare in assenza di un cadavere. Altrimenti si corre il rischio di fare la stessa fine. Questa aberrante logica circolare è il teorema brutalmente messo in piedi dalla dittatura militare, un teorema che si risolve tutto nell’idea che ciò che non può essere visto neanche esiste.
Un secondo movente psicologico gioca su ciò che non può essere visto pur trovandosi a portata di sguardo. Si pensi a quanto di malefico c’è nella stessa scelta di destinare un garage cittadino a luogo di tortura. Un luogo ubicato nella centralissima Buenos Aires, a stretto contatto con il traffico cittadino e lo scorrere ordinario delle faccende del quotidiano. A portata di vista di chiunque, ma sottratto allo sguardo di occhi indiscreti dall’impunità che protegge il potere costituito. Ecco, questo contrasto tra la routine cittadina che scorre come sempre e le urla strozzate in gola dei “dissidenti politici”, tra l’ordinaria tranquillità dei passanti e le pene dei detenuti le cui carni sono ferite a sangue anche per mano della loro indifferenza, ci dice che null’altro potrebbe spiegare meglio l’istituzione regolarizzata del terrore.
Lo stesso vale per ciò che ci viene direttamente suggerito dalla benda sugli occhi che risalta dalla bella foto della locandina di “Garage Olimpo”. Non vedere la faccia dei carnefici può servire alle vittime per coltivare qualche speranza di riuscire a svincolarsi dalla morsa stringente di chi gli ha tolto tutto facendoli prigionieri. Un piano diabolico, perché se l’appurare il grado di sapere dei supposti militanti politici è il compito principale dei torturatori, il non vedere serve da strumento per farlo emergere più in fretta. Perché il sapere e il vedere sono ingredienti indispensabili del conoscere consapevole, un’arma pericolosa contro ogni esercizio dispotico del potere.
Insomma, Marco Bechis è stato bravo a farci sentire tutto il peso della dittatura limitandosi ad adottare uno stile di regia secco ed essenziale, tanto vicino al qui e ora, esemplificato adeguatamente dalla psicologia malata degli esecutori delle torture, quanto lontana dai loro effettivi mandanti. La negazione della libertà è un fatto inconfutabile che ci viene restituito per quello che è, rimanendo concentrato sulla violenza che si compie senza sentire l’esigenza di allargare il campo sulle cause che l’hanno prodotta. Bastano gli interni claustrofobici, l’eco del dolore che rimbomba dagli interni inospitali, l’atmosfera disturbante. Basta mostrare una serranda chiusa dall’esterno di una strada trafficata. Basta rigistrare le incombenze dei carcerieri vissute con quotidiana normalità. Basta vederli giocare a ping-pong nel mentre si sentono le scariche di elettroshock dalle stanze attigue.
Date le scelte registiche adottate, l’unica chiusura possibile ci viene consegnata da un finale che assomma lirismo delle immagini e dramma narrativo che raggiunge l’apice. Lo sguardo è ancora portato oltre la tragedia che si compie, prima a fissare le forme di un aereo da cargo mentre prende il volo, poi come fisso in soggettiva a planare sulle lucide acque dell’oceano. Ottimo cinema civile del bravo Marco Bechis.
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