Regia di James Gray vedi scheda film
La vita è – incrociando le dita, facendo tutti gli scongiuri del caso – un lungo viaggio costituito da tappe sostanzialmente comuni, almeno con chi fa parte dello stesso tessuto sociale, e cosparso da altre strettamente personali. Da quanto viviamo direttamente sulla nostra pelle, quindi in prima persona, così come da ciò che si sviluppa/accade/agita intorno a noi. Di ricordi che ci faranno compagnia ogni santo giorno, senza abbandonarci nemmeno per un istante, e altri che rimangono relegati e sigillati in un cassetto dimenticato, comunque sia pronti a ritornare in auge in un momento qualsiasi, talvolta scavalcando la facoltà di scelta, semplicemente perché un oggetto/volto/avvenimento rispolvera - di punto in bianco - una pagina di quel passato che incide pesantemente nella decifrazione delle generalità del singolo individuo.
Non esistono regole e tempi prefissati nella roccia perché ciò avvenga, semplicemente si tratta di bagliori improvvisi che rimettono in moto la macchina del tempo, catapultando i nostri pensieri altrove.
Prende così il via, occasionalmente, una reazione a catena che richiede/pretende una valvola di sfogo, che nel caso di James Gray s’identifica in Armageddon time, un film tanto minuto quanto autentico, in grado di comunicare, condividere, pungolare, risvegliare e propiziare.
New York anni ’80, nel quartiere del Queens. Arrivato in prima media, Paul Graff (Banks Repeta – Black phone, Le strade del male) conosce Johnny (Jaylin Webb – The wonder years), che diventa il suo migliore, nonché unico, amico.
In seguito a un richiamo scolastico, Esther (Anne Hathaway – Les misérables, Amore & altri rimedi) e Irving (Jeremy Strong – Succession, The judge), i suoi genitori, perdono la pazienza e decidono di spostarlo in una scuola privata che possa disciplinarlo.
Paul non riesce ad adeguarsi alla nuova situazione e solo suo nonno Aaron (Anthony Hopkins – Il silenzio degli innocenti, The father) sembra in grado di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda.
In un breve lasso temporale, una serie di eventi segneranno indelebilmente il suo percorso di crescita.
Dalle stelle di Ad Astra, James Gray torna sui suoi passi e si depura dalle scorie accumulate da una produzione troppo impegnativa per le sue abitudini di autore appartato (I padroni della notte, Two lovers), cimentandosi con un’opera dalla dichiarata impronta autobiografica (già i connotati di Banks Repeta fanno - senza alcuna ombra di dubbio - pensare direttamente a lui).
Con Armageddon time (di)stende, dipinge e spande un mosaico/magistero empatico e denso di richiami strettamente personali, tra parole (dai vari racconti emergono chiari riferimenti ad altri suoi film, in primis a Little Odessa e a C’era una volta a New York) e fatti che configurano un sostanzioso portfolio di esperienze.
Un romanzo di formazione che, diramandosi dall’innocenza di un bambino, è esente da qualunque tipo di artificio, di format classicheggiante, contraddistinto da cromatismi autunnali che vanno – felicemente - in controtendenza con il sentiment attualmente in voga.
Così, attiva le capsule del tempo e scucchiaia una sequela di aneddoti personali, con un pregevole ricorso all’arte oratoria che cuce, puntella e rammenda, con la stella polare assegnata alla sincerità, perseguita con nobile integrità, allineando un ragguardevole quantitativo di fattori dirimenti (addii dolorosi, scelte imposte) e altri secondari, delle toccate & fughe che lasciano – anche se in brevi assaggi - un evidente segno del loro passaggio.
Un prospetto estremamente coeso, reso ancor più palese e pertinente dalla fotografia fluida, linda e asciutta di Darius Khondji (Seven, Delicatessen), un involucro raffinato in perfetta armonia con una scrittura euclidea, due assi portanti che rendono tutto il resto più facile, peraltro ulteriormente avvalorato dal contributo artistico fornito dalle interpretazioni.
Detto che il giovanissimo Banks Repeta manifesta un’ineffabile naturalezza, il contorno è impreziosito dall’adesione - incondizionata e per nulla invadente - di Anne Hathaway e di Jeremy Strong, mentre Anthony Hopkins va anche oltre, disegnando il nonno per definizione, quello che ogni bambino meriterebbe di avere al suo fianco.
In buona sostanza, Armageddon time è un’opera gemmea, fuori dal nostro tempo eppure attigua al processo di formulazione educativa delle singole identità (almeno per chi, come il sottoscritto, in quegli anni ottanta ci è cresciuto, seppur in un luogo lontanissimo da quelli descritti). Un flusso continuo, esposto senza avanzare pretese, che cerca semplicemente di farsi ascoltare, con una dichiarazione d’intenti accogliente e stimabile come poche altre, tale da scuotere e sollevare molteplici riflessioni.
Tra sogni infranti (di un mondo migliore) e rette prestabilite (che vorrebbero pretendere/standardizzare ogni proiezione), blandizie e punizioni, talenti e deficit, amicizia e famiglia, conflitti e cambiamenti, scorribande e ingiustizie, responsabilità ed errori, vicinanze e lontananze, divisioni scritte a tavolino e atti di ribellione, aspirazioni personali e la praticità calata dall’alto, zampate colme di disillusione e vocazioni artistiche (espresse da chi ce l’ha fatta), giornate indimenticabili e punti di vista che sanno solamente guardare in avanti.
Di commovente spontaneità.
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