Regia di David Fincher vedi scheda film
“Prima regola del Fight Club: non parlare mai del Fight Club.”
Bene. Trasghedirò a questa semplice regola (invero piuttosto retorica in quanto il film stesso, come del resto il libro da cui è tratto, è costruito, anche furbescamente, proprio per parlarne il più possibile) e parlerò del Fight Club, pellicola che nel 2008 è stata inserita nella classifica “500 Greatest Movies of All Time” stilata dalla rivista britannica Empire.
Basato sull’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, autore che praticamente in ogni lavoro racconta di una società malata di un’individualismo sfrenato avulso dal sogno americano, il Fight Club di David Fincher - fotografia di Jeff Croneneweth, montaggio di James Haygood, scenografie di Alex McDowell e musica dei Dust Brothers - é un film del 1999 sceneggiato da Jim Uhls perfettamente legato al suo tempo, quasi un vademecum del millennio (americano) che volgeva al termine e, al contempo, prologo degli anni a venire e (anche) monito per quello che si preparava per il nuovo secolo.
Caratterizzato da un ipertecnicismo e da un manierismo fin troppo (ambiguamente) consapevole per sembrare realmente autentico, eccessivamente legato alla sua fonte letteraria da risultarne fin troppo debitore (del linguaggio e dei dialoghi come anche delle immagine ma soprattutto nelle sue “idee”) e che sfrutta l’estro visivo del regista per convertire sullo schermo la storia di un uomo alienato da una società fagocitata dal consumismo ed effetto da una grave forma di insonnia, prigioniero in un limbo esistenziale a cavallo tra sogno e realtà.
Fincher ci porta nelle profondità turbate di una mente umana incanalandola in una narrazione incontrollabile e perturbante, tra estetica della violenza, forse un certo fascismo latente ma, soprattutto, un’eversione situazionista che si “sdoppia” con la concezione del Doppio, tra socialismo anarchico e velleità tradite della borghesia americana.
Il disagio dell’uomo moderno, incastrato in un mondo che reprime i suoi istinti e la sua “pulsione di morte” sublimandoli con il consumismo, metafora dell’importanza attribuita alla materialità mettendo da parte ciò che é davvero importante e che porta a perdere progressivamente contatto con se stesso con risvolti imprevedibili quando anche deleteri.
L’insonnia del protagonista, che per lavoro stabilisce se sia il caso o meno del ritiro di un prodotto a causa di un (spesso mortale) difetto di fabbrica oppure di rimborsarne le vittime attraverso un calcolo delle probabilità che riduce il valore della vita umana a una semplice questione di numeri, viene causata dal perdurare nella psiche di una rabbia che rende impossibile il riposo e quindi il sognare, ovvero il principale meccanismo dell’inconscio di subliminale le nostre peggiori pulsioni che quindi non trovano sfogo.
Il Fight Club diventa quindi un mezzo per sostituire una sofferenza esistenziale con una fisica, con il coinvolgimento e quindi l’immedesimazione nella percenzione del dolore che non diventa più una proiezione del proprio Io ma reale e autentica, dandone quindi forma e sostanza.
La fondazione dei Fight Club e la successiva creazione di una vera organizzazione paramilitare con il compito di scardinare le fondamenta stesse della società sono quindi l’evoluzione di una profonda ferita narcisistica e di un perdurante senso di disagio verso ciò che lo circonda che sfocerà nella sua nuova personalità di Tyler Durden, antisociale e bizzarro venditore di saponette pervaso da un’idealismo anarchico.
Una personalità multipla, non priva di una certa fascinazione, nel quale l’uomo comune può istintivamente identificarsi, con le sue perenni insoddisfazioni e i sogni continuamente infranti, e le nostre debolezze a trovare rifugio nella sicurezza e nella forza del Doppio, complementare al primo e all’unione di due estremismi che, per sopravvivere, hanno bisogno l’uno dell’altro.
Per quanto referenziale e provocatori Fight Club con il suo humour nerissimo e il suo cinismo riesce comunque a far riflettere il pubblico anche nella sua messinscena ipertrofica tipicamente finchiana, legata alla condizione di una psicosi dilagante, affettiva e sociale, che ha come unica soluzione la scissione della propria identità con lo scopo di preservare la sua parte più sana da quella più “cattiva”, e il cui confronto non può che portare ad effetti devastanti sia per l’uomo che, di rimbalzo, anche per la stessa società civile da lui costruita.
VOTO: 8
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