Regia di David Fincher vedi scheda film
Metà thriller di fanta-sociologia dai sottofondi apocalittici (si approssimava la chiusura del millennio), metà revisione del canovaccio di Dr. Jekill e Mr. Hyde (aggiornato alla roboante visionarietà hollywoodiana), “Fight Club” è stato un autentico oggetto di culto, che non ha ancora smesso di esercitare il suo discutibile fascino sulle nuove generazioni. Discutibile dal punto di vista squisitamente cinematografico, ovviamente. L’opera di Fincher ha tutti i crismi del film “furbo”, di quelli che giocano a fare i cattivoni ma finiscono spesso per ammiccare. Oppure, se preferite: vedere “Fight Club” è come sentir parlare il classico politicante che fa sempre bella figura nei talk show a suon di declamazioni retoriche e parate di culo. Irritante, ma indubbiamente capace di intrattenere.
Sia chiaro: non voglio fare l’hater a tutti i costi, solo per il gusto di smontare un cult conclamato, tanto è vero che il mio giudizio sul film è complessivamente positivo. Però mi pare corretto inquadrare un film, qualsiasi film, senza farsi condizionare dallo status di leggenda che ha acquisito nel corso del tempo. “Fight Club” ha dalla sua un ritmo incalzante, una certa brillantezza registica, eccellenti interpretazioni, che garantiscono oltre due ore di spasso e adrenalina. Dove fallisce il film è invece nella pretesa di combinare uno psico-dramma identitario con un discorso sulla società dei consumi piuttosto trito e pletorico. Tyler Durden filosofeggia, predica, moraleggia. E’ il dark side di ogni white collar frustrato. D’altra parte, a quanti piccolo borghesi stretti nella morsa di un lavoro alienante e di un consumismo assillante non è mai balenata nella testa l’insana idea di far saltare tutti i simboli del capitalismo avanzato? Un po’ come la ragazza nel finale di Zabriskie Point…Certo, vedere quelle torri crollare, solo un paio d’anni prima dell’11/09, in una America che, rivista oggi in questo film, pare provenire da un’era lontana, mette un po’ i brividi.
Insomma, la ribellione del protagonista contro il Sistema si carica di connotati immaginifici, ma stereotipati, quasi delle caricature: il leader carismatico che vive in una fetida stamberga, in barba a tutto il decoro della middle class, è una figura stucchevole, ma probabilmente la cosa è voluta. Quello che lascia davvero perplesso e che impedisce al discorso di acquisire un certo spessore, è l’enfasi dei dialoghi, il tono declamatorio con cui Tyler Durden pontifica sui massimi sistemi con battute fra il cinico e il tronfio. Ma soprattutto: nessuno spazio è lasciato allo spettatore, che viene invece completamente sotterrato da questo fiume in piena di parole, slogan e ciance (oltre che stimolato visivamente da un montaggio subliminale e da effetti grafici stilosi, uditivamente da un soundscore “big beat” come andava di moda all’epoca). Una caterva di “spiegoni” si mangia letteralmente il contenuto del film, azzerandone ogni possibile ambiguità.
Anche il predecessore “Seven”, sempre di Fincher, era condotto sulla stessa linea deterministica e moraleggiante, ma era un prodotto molto più raffinato nel dibattere sul concetto labile di “identità”. In “Fight Club” invece non si va di fioretto, ma di accetta (probabilmente il difetto sta nel manico, il testo da cui è tratto il film). E poi: che fine fa, nel corso del film, il discorso sull’empatia (il protagonista si finge malato terminale per frequentare sedute psicologiche coi malati veri) che caratterizza la prima mezzora di film? Che parte riveste nell’economia tematica dell’opera? Per fortuna il cast funziona a meraviglia: Brad Pitt gigioneggia in un ruolo premeditatamente sopra le righe, Helena Bonham Carter convince e affascina in una parte scritta davvero male, mentre Ed Norton è colto nel suo momento di grazia.
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