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Fight Club

Regia di David Fincher vedi scheda film

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Enrique

Enrique

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La recensione su Fight Club

di Enrique
6 stelle

La solitudine metropolitana e la mancanza di un ruolo di una qualche utilità sociale generano mostri.

La cura propinata, in risposta, dalla società occidentale (il consumismo più sfrenato) può cagionare, tuttavia, taluni effetti collaterali nelle persone predisposte. Fra queste, il protagonista; un anonimo travet qualunque - affetto da una rara forma di questa subdola (ma devastante) malattia contemporanea - che finirà, così, per trovarsi, suo malgrado, invischiato in un progetto di “guarigione” che transita dalla detonazione delle fondamenta della nostra stessa società.

Un cambio di rotta dalle conseguenze devastanti di cui Fincher, con accortezza, non lesina avvisaglie alquanto eloquenti, fra le quali, ad esempio:

- La scoperta, da parte del travet di cui sopra, che un valido rimedio al proprio malessere (l’insonnia, nella fattispecie) consiste nella frequentazione di circoli di persone che hanno già un piede nella fossa.

 

- La scoperta (il soggetto agente non cambia), in quanto costretto a trasferirsi in un “antro” diroccato, fatiscente e maleodorante, che questo può essere convertito in un’abitazione, un’officina clandestina, una funzionale alcova ecc.

Insomma, nonostante tutto, va più che bene per qualsiasi uso (ergo, la scoperta dell’inutilità dei suoi precedenti comfort; il suo bell’appartamentino, il suo lussuoso guardaroba, il suo accurato arredamento dell’IKEA - da quelle parti dev’essere un lusso - e tutte quelle frivolezze che riempivano la sua vita e le davano una parvenza di senso).

- L’intuizione che il dolore lancinante provocato da un bacio “infuocato” (così come quello sperimentato nei Fight club) tanto corrode la pelle e provoca urla di dolore e disperazione, quanto suscita un livello di consapevolezza ed accettazione per la caducità dell’essere umano impensabili fino a quel momento; e stimola la creazione di potenti anticorpi estremamente utili in un contesto sociale quale quello auspicato dal protagonista.

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- L’intuizione che la morte sfiorata (quella di un povero studentello dalla lingua lunga, nella fattispecie) regala lunghissimi attimi di vita piena ed profonda, come non mai; insegna il valore immenso della quotidianità; da vivere sempre intensamente, fin che ce n’è.

 

Quattro situazioni diversissime fra loro che tuttavia hanno un preciso denominatore comune, ben espresso a parole (oltre che nei fatti di cui sopra) in più di un’occasione: le cose che possiedi alla fine ti possiedono e: è solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa.

Solo dopo che quel travet qualunque si spoglia delle “sovrastrutture” fisiche e mentali con cui è cresciuto e vissuto fino a quel momento; solo dopo che regredisce ad uno stato primitivo, dove non esiste il concetto stesso di appartenenza, nè gli affetti duraturi, né la grigia monotonia delle abitudini routinarie o la sindrome da acquisto compulsivo. Solo dopo che sperimenta la libertà dalle convenzioni sociali (e non nelle convenzioni sociali), allora egli può sperare di trovare sollievo alle sue sofferte notti insonni passate a cercare una cura per la sua malattia. E’ allora che avverte la necessità di condividere (cruentemente, ma, a ben vedere, neanche troppo) il suo inusuale “ritrovato farmaceutico” con la sua comunità di appartenenza. Una (ignara) società capitalistica e post-industrializzata.

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Fincher predica male, ma razzola benissimo. Ovvero, predica un estremizzazione radicale (e massimamente nichilista) di una verità indiscussa (una verità scritta sui libri di storia, ma che, sino a quel momento, veniva, evidentemente, giudicata inadatta ad una trasposizione cinematografica di respiro postmoderno, stante il rischio di un accostamento a schematizzazioni ideologiche avvertite come tralatizie o superate). Ed essa predica con un approccio oltranzista e tonalità disturbanti, provocatorie e distruttive. Il messaggio è chiaro e non è facile da digerire. La tecnica fa male e lascia lividi ovunque, e, finanche, qualche cicatrice.

Bravissimo il trio di attori protagonisti.

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Un film da vedere, sì, ma con forte spirito critico.

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