Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
"Al di là della vita" è una perenne allucinazione.
1999. A Martin Scorsese viene l'idea di chiamare nuovamente il leggendario sceneggiatore americano Paul Schrader, a distanza di dodici anni dall'ultima loro collaborazione ne "L'ultima tentazione di Cristo", per dare un aggiornamento sulle nevrosi psicofisiche che ci avevano fatto innamorare di Travis, protagonista tormentato di "Taxi Driver": tale interesse è scaturito dal voler adattare l'omonimo romanzo dello scrittore Joe Connelly, dal quale la pellicola si ispira per poter dare aria ai polmoni e permettere loro di respirare, eppure questa aria è paradossalmente affannosa. Cosa sarà mai?
Per l'occasione Scorsese prende in considerazione l'idea di inserire due nuove star del cinema hollywoodiano contemporaneo ossia il rischioso Nicolas Cage, che in quegli anni era passato da John Woo (Face Off) a De Palma (Omicidio in diretta) in un battibaleno, l'istrionico John Goodman che - invece - aveva uno stretto legame con Joel Coen (Arizona Junior, Mister Hula Hoop, Il Grande Lebowski) l'eclettica Patricia Arquette, i cui scali con Burton (Ed Wood) e Lynch (Strade Perdute) facevano già intuire la determinazione dell'attrice, e infine Tom Sizemore, il cui ruolo di culto in "Assassini nati" di Oliver Stone rendeva chiara la possibilità, da parte di Schrader, di scritturare divinamente il suo ruolo. Insomma, quello di Scorsese sembra essere un cast corposissimo e a dimostranza di ciò vi è l'assoluta padronanza da parte del regista - come al solito - di gestire eccellentemente i tempi, gli spazi e le risolutezze dei protagonisti schizzati rinchiusi in questa pellicola totalmente anarchica e fuori dal tempo.
"Al di là della vita" apre l'orizzonte ad una nuova definizione di New York come città e punto di riferimento per le vite dei suoi cittadini. Difatti la Grande Mela è tratteggiata come un enorme e devastante macigno che schiaccia a piè pari le prospettive del nostro protagonista Frank Pierce, un paramedico che da un bel po' di tempo altro non fa che perdere le vite dei suoi pazienti, causa dovuta all'imminente sfortuna e sfiducia in ambito lavorativo. Il più grande trauma di Frank persiste nel lontano ricordo della morte di Rose, una tenera ragazza che ha provato a rianimare in punto di morte ma i cui tentativi si sono rivelati mal riusciti sin da subito. Assieme ai suoi colleghi Larry e Noel, Frank percorre tutte le notti le fredde e torbide strade di New York, alimentate da una qualità della vita alquanto discutibile, quartieri malfamati, gente sgradevole e automobili a gogo che fungono da inquinamento acustico. Durante uno dei percorsi notturni, Larry e Frank ricevono la chiamata da parte dell'ex tossicodipendente Mary Burke in merito ad un improvviso arresto cardiaco del padre. Frank riesce a ripristargli il battito cardiaco e da lì è subito una corsa al tempo per portarlo in ospedale: l'incontro con Mary gioverà a Frank per restituirgli quel minimo di incoraggiamento e di spinta emotiva oramai sprofondati da tempo. Ma qualcosa va storto, molto storto.
Angoli olandesi, inquadrature distorte, carrellate furiose, dialoghi deliranti, musiche caldissime, sfrenate psichedeliche e interpretazioni fatiscenti. Questo è "Al di là della vita": un'opera caotica che narra del progressivo tracollo psicologico di un uomo fortemente instabile, che versa le sue più nascoste tentazioni nei sensi di colpa e per cui ne fa un problematico dogma di vita, il tutto alternato dalla piattezza e la noia consentite dalla vita lavorativa, la quale diventa sempre più un cappio al collo assicurato per il nostro. L'estremo cinismo e pessimismo che Scorsese e Schrader portano a galla scena dopo scena è intriso da un amarissimo umorismo nero, che amplia ancor di più l'aspetto ironico che un po' ricorda la scrittura di "Fuori Orario" dove ciascun personaggio costituiva forme e battute più surrealiste che mai e qui, a distanza di anni, ritorna prepotentemente quella base grottesca che Scorsese aveva già predetto negli anni ottanta assumendo, però, un rincaro nutrito di patimento, sofferenza e crudo realismo nei confronti di una realtà precostruita. Inoltre la pellicola sembrerebbe essere un atto di forte denuncia nei confronti del servizio ospedaliero americano, dove la sanità non aiuta ulteriormente e il lavoro è più un gioco in cui i pazienti sono dei giocattoli (meglio dei burattini) da ripristinare con una semplice scossa elettrica, non contando altrettanti danni neuronali e/o psicologici causati sugli stessi.
Nicolas Cage è semplicemente un mostro di bravura. Il carattere deprimente, il suo viso scavato, le sue occhiaie costantemente presenti, lo sguardo allucinato e l'andamento pendente fanno di questo il più grande ruolo mai sfruttato nella sua vasta carriera attoriale, che negli ultimi vent'anni vanta una marea di bruttezze filmografiche ma - talvolta - anche qualche perla che non dovremmo lasciarci sfuggire (Cane mangia cane, Pig, Il Talento di Mr. C.). Una delle scene più potenti è quella in cui il suo personaggio, oramai assorbito dalla terribile droga Morte Rossa, immagina scenari spaventosi in cui la figura di Rose, interpretata maestosamente da Cynthia Roman, riecheggia nel luogo che l'ha vista morire, e proprio lì Frank torna in sè e comincia ad emettere lunghi schiamazzi di dolore in merito al ricordo funesto. Anche se devo ammettere che il dialogo finale con lo spirito di Rose quanto mi abbia fatto capire l'iperbole connessa: difatti Rose spiega a Frank che la sua non era una colpa, che purtroppo è successo ciò che doveva accadere ma che tale autocolpevolizzazione ha causato soltanto grandi danni alla persona.
Sarò egocentrico, non me ne vogliate, ma mi sono risentito molto in questa descrizione del carattere di Frank, che qui sembra finalmente assolto da tutti i peccati commessi al suo stesso pudore. Uno dei finali scorsesiani che più mi ha colpito in assoluto per la sua schiettezza, motivo per il quale continuo ad amare questo incantevole regista, che qui dimostra di essere avanti di almeno cinquant'anni sul piano della messa in scena scoppiettante, della fotografia cupissima e al limite dell'introspezione, e specialmente della regia fuori dal mondo. Un capolavoro sottovalutato che conclude degnamente un secolo di sperimentazione cinematografica.
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