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Crimini e misfatti

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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La recensione su Crimini e misfatti

di LorCio
10 stelle

Quando fece la sua sfolgorante comparsa sul grande schermo, Crimini e misfatti spiazzò più o meno tutti. Pur avvertendo nell’uomo Allen una certa dimensione nera e pessimista, non era molto immaginabile che l’autore si immergesse in atmosfere così plumbee. C’erano già stati i malinconici Un’altra donna e Settembre, bergmanianamente e cechovanamente sostenuti su territori non irrimediabilmente tetri, piuttosto avvolti da una patina di crepuscolare decadenza.

 

 

Qui no. Qui non c’è scampo. Ma quasi a non volersi distaccare dalle esigenze di quel pubblico abituato ad ammirarlo nella sua buffa goffaggine, decide di intraprendere questo viaggio all’inferno (s)e(nza) ritorno procedendo su due binari paralleli che si incontrano all’infinito (l’infinito è quel luogo in cui la moralità e la dignità umana non riescono a trovare una cifra esistenziale adatta alla portata di tali valori). Da una parte c’è la dostoevskijana parabola di discesa di un oculista ateo che si vede costretto a sbarazzarsi dell’invadente amante, e dall’altra ci sono i turbamenti di un documentarista che deve voltare pagina per non finire derelitto.

 

 

Il trait d’union tra le due storie, apparentemente incongruenti (da una parte ci sono i “crimini” e dall’altra i “misfatti”), è un rabbino, che nonostante la cecità che lo mangia crudelmente, forse ci vede più in là di tutti. Ed è proprio la cecità metaforica il tema principale di queste storie cattive (in accezioni diverse v’è sia nella prima che nella seconda una sorta di amara cattiveria che travolge sia i personaggi che lo spettatore), malattia congenita od acquisita che è cifra caratteristica dei nostri giorni malati ed inconsapevolmente votati alla catastrofe umana.

 

 

Allen non ha pace: se nella parte che lo coinvolge direttamente non fa altro che imbastire un raccontino in perfetto stile alleniano, malinconicamente sostenuto dalla tesi che la boriosità e la prepotenza (incarnate dal produttore televisivo di Alan Alda) vincono sempre sui toni bassi (ossia Woody), sia nel campo lavorativo che in quello dei sentimenti (c’è di mezzo Mia Farrow, allora moglie dell’autore), nell’altra parte utilizza praticamente la medesima matrice d’azione e gli stessi ingredienti, ma li mescola in modo diverso, li imposta con più dimensione funerea.

 

 

Certamente è questa la frazione di Crimini e misfatti (ossia quella criminale) che più stuzzica l’interesse del disorientato spettatore, e quella in cui Allen continua il suo discorso sugli echi bergmaniani. Qui i rimandi al cinema dello svedese Bergman sono interpretati dalla indagine esistenziale del maturo oculista, che ripercorre un momento del passato remoto della sua infanzia per cercare di capire quell’oscuro morbo che lo attanaglia. Non abbiamo già visto una cosa del genere ne Il posto delle fragole, quando Isak torna alla casa natale e vede rivivere nel salotto una colazione con la rigida mamma e i vari cugini e zii?

 

 

A sua volta, Allen propone una sequenza analoga, probabilmente rifacendosi a veri accadimenti della sua giovinezza, quando a tavola si parlava di olocausto e nazismo, di Hitler e di Levi (il cui nome è ripreso dal vecchio protagonista del documentario che il personaggio di Allen sta girando). Gli occhi dell’oculista Martin Landau sono increduli, smarriti, dispersi. Quanto Bergman, tanta è anche l’influenza di Fedor Dostoevskij, il cui Delitto e castigo è più che un’ispirazione. Per il biblico antieroe di Landau, il delitto si rivela ben presto un castigo irrimediabile.

 

 

Quasi a voler sottolineare una straniante contraddizione, Allen “(non) risolve” la cosa inserendo il criminale Landau e il sottilmente inquieto Allen in una festa (il matrimonio della figlia del rabbino, che è cliente e confidente dell’oculista e fratello della moglie del documentarista). Si isolano, si confrontano, si ascoltano. E poi si allontanano. Tornano alle loro vite. E se forse per Allen questa fine è un nuovo inizio, per Landau il futuro è l’incognita più allucinante: come si districherà quest’uomo tra le conseguenze del peccato e i doveri familiari?

 

 

Il regista non lo rappresenta, lascia intuire qualcosa, ma non gli interessa del tutto. La sua parabola pessimistica si è compiuta, e ormai nulla ha più senso. Su tutto la (non) presenza di un Dio che non batte un colpo per punire i malvagi, che lascia impunite le colpe dei suoi (presunti) figli. In perfetto equilibrio tra tragedia e commedia agrodolce, tra dramma penoso e dolce malinconia, è un film sublime.

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