Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film
Alle larve!
Un film diretto (e, d’accordo, sì, anche sceneggiato, ci mancherebbe altro) da (un iper-ur-post) Charlie Kaufman traendolo - però senza tradirlo - da un - rintocchino le campane, squillino le trombe - soggetto non suo, ma comunque pervaso da una sui(ni)tà ben riconoscibile?
Dopo la pausa lustrale post-“Anomalisa” l’autore di “Synecdoche, New York” esce con un uno-due da paura: scrive un romanzo (“AntKind”) e gira un film, questo, il suo terzo anche da regista, producendoli anche - immagino e spero - col ricavato preventivatamente preinvestito generato dalla collaborazione alla stesura dello script di “Chaos Walking” di Doug Liman.
Mentre (interpretato da Guy Boyd) il bidello (coming home, “Good Will Hunting” & personale A.T.A., coming home, “Scrubs” e inserviente: ma sei già a casa, vero? Sei sempre stato, il custode, qui...), autoassolvendosi, idealizza (i)l’ (s)oggetto del (tentativo) di stupro commesso/sventato, e oramai tutte le AnomaLucy scindendosi ed evolvendo in un’epifanica apoteosi del narratore inconsapevole [che viene - thomasbernhardescamente - (in)esistito] collassano su loro stesse, disapparite, ecco che nel pre-finale Jesse Plemons diventa una via di mezzo fra il James Dean di “Giant” e il Caden Cotard di “Synecdoche, New York” (e Philip Seymour Hoffman fu suo padre in “the Master” di Paul Thomas Anderson - com’è notizia di questi giorni che il prossimo film di PTA avrà come protagonista il figlio di PSH, Cooper -, un film tanto parimenti complesso - e danzante - quanto del tutto divergente da questo: pervaso di ricerca e di bisogno virulentemente messi in atto, attraversando pervicacemente ed ottusamente lo spazio, e non abbandonato al flusso del tempo, che ad ogni modo tutto, alla “fine”, divora, a prescindere dalle scelte intraprese).
“Ogni cosa vuole vivere. I virus sono solo l’ennesimo esempio. Persino le pessime idee cinematografiche vogliono vivere.”
Ed ecco una cosa (molto poco) divertente che non farò, mai, più: ri-assistere ad “I'm Thinking of Ending Things”. Volutamente, pervicacemente, ottusamente pedissequo al romanzo d’esordio di Iain Reid (in cui viene anche scherzosamente citato Carl Gustav Jung, mentre qui si manda a quel paese Sigmund Freud)
– e la cosa è rimarcata evidente dalle molte citazioni [IAToET sono un romanzo e soprattutto un film architettati su citazioni, richiami e riferimenti (significante) spropositatamente eccedenti che ne modellano, denotano e connotano la struttura (senso) esprimendo ulteriore significato letterale e metaforico] letterali extra-letterarie (cioè non già contenute nel testo di partenza) inserite per l’occasione ribadendo il concetto, l’atto, il pensiero, non ultima il brano “fatto (sempre per interposta persona, quella che manovra i fili delle proprie marionette) suo” dalla co-protagonista tratto dalla a proprio modo celebre stroncatura che Paulina Kael fece all’epoca dell’uscita di “A Woman Under Influence” di John Cassavetes (“Mabel cerca di tagliarsi le vene dei polsi. Nick mette un cerotto sulla ferita. Il simbolismo ti fa venire voglia di urlare. Ma questo film di 2 ore e 35 minuti ti fa penare, da tanto ti stordisce. I dettagli, che dovrebbero definire la natura patologica dei personaggi che circondano Mabel e mostrare il suo isolamento diventano invece fiacchi e falsi. Sono i personaggi a essere inconsapevoli o è Cassavetes a non sapere ciò che fa?”), cui ne seguono altri due più brevi tratti l’uno dal già citato parafrasandolo all’inizio di questo capoverso David Foster Wallace e l’altro da “la Società dello Spettacolo” di Guy Debord ed enricoghezziana memoria [DFW, GD e, per proprietà transitoria, PSH... È forse un fuori tempo massimo invito al suicidio rivolto a Paulina («“2001: a Space Odyssey”? Trash masquerading as art!») Kael (e due terzi di film altro non sono che un susseguirsi in lunga ed estesa teoria di stanze kubrickiane - ulteriore esempio recente: il finale di “the Sisters Brothers” di Jacques Audiard - oltre lo spazio-tempo al termine di un’odissea personale che ognuno chiama vita: e ritornano gl’ingranaggi dietro alle quinte che muovono le pareti a orologeria di film cerebro-cardiaci quali “Being John Malkovich”, “Confessions of a Dangerous Mind” ed “Eternal SunShine of the SpotLess Mind”), come se il Parkinson non avesse già agito all’epoca?] –,
ma capace di inscenare un finale “cotardiano” (e contro-capgrasiano: sono tutti morti, al Liceo OverLook, ma riportati in vita dal… pensiero, come surrogati di… azioni), evocato - dopo tutta questa inscheletrita, emaciata, rattrappita e a suo modo confortante e confortevole oscurità - in un abbagliante mattino ch’è un nevaio d’acciaio post-tutto, il terzo film da regista e il suo ottavo (e mezzo, via!) da sceneggiatore (ma, per l’appunto, non soggettista) è… quasi un capolavoro. Quasi senza quasi. Transitoriamente. Straziante.
E da questo PdV vale quanto già scritto in parte per l'opera letteraria di partenza: inverare un personaggio tra(d)endolo da un ricordo ch'è il rimpianto di un futuro mancato, e poi rivoltarlo contro sé stessi, dando corpo al pensiero, e facendolo agire, in un gesto di catartica e violenta espiazione.
[Cape Cod Evening - Edward Hopper - 1939; Christina's World - Andrew Wyeth - 1948; qualcosa accade fuori campo, semi-osservata; osserviamo osservare, inosservati, qualcosa, in campo, che forse non c'è; Lucy ci guarda guardarla, e si vede.]
Sono entrato in “I’m Thinking of Ending Things” per mezzo del romanzo di Iain Reid, prima, e attraverso l’infinito scrollarsi di dosso l’acqua dal pelo che il cane (redivivo - se così si può dire... - per il cinema, ma trapassato da tempo nel romanzo) effettua in loop reiterato ed insistito nel bellissimo ed inquietante trailer con Jesse Plemons in surplace/understatement (ma fa sempre paura, automaticamente, naturalmente, come in “Breaking Bad” ed ancor più in “El Camino”), David Thewlis e Toni Collette completamente svitati (uno appena uscito da “Fargo - 3”, l’altra ancora ben addentro al mood ariasteroso) e Jessie - ché sì, con Charlie Kaufman la vita collide/collima sempre col cinema (avete appena letto un piccolo spoiler, ma non l’avete capito, né compreso, nemmeno adesso che ve l’ho spiegato) - Buckley (“Beast”, “Taboo”, “Chernobyl” e la prossima, anch’essa imminente, 4ª stag. di “Fargo”) carinissima, dopo. E ne sono uscito abbastanza disfatto ad audiovisione ultimata. Sono altrettanto certo che la citazione dal Soccombente di Thomas Bernhard presente nel libro nel film non c’è. Davvero, una cosa molto bella che non farò, mai, più.
A proposito di Jessie Buckley: lodevole e rimarcabile il suo lavoro sull’inflessione e il tono della voce, con gli accenti che cambiano molte volte durante l’opera, almeno tante quanti sono i molti nomi con cui viene chiamata e definita (mentre nel romanzo rimane anonima innominata narratrice - come qui - (in)affidabile): molte professioni, stati civili e classi sociali: pittrice, ricercatrice, cameriera, studentessa…
Fotografia in 4:3, con minuscole e gratificanti invenzioni visive, di Lukasz Zal (“Ida”, “Loving Vincent”, “Cold War”, “Dovlatov”). Montaggio particolarmente lineare ed intuitivo e per nient’e nulla didascalico di Robert Frazen, già con Kaufman per Synecdoche. Musiche di Jay Wadley.
A proposito di musiche, Kaufman riesce a disinnescare le ricorrenti (per lo meno in IuEsEi) e stancanti e financo sfiancanti brutto-stagional annuali ed annose metodiche polemiche metooiche pro & contro cancel-culture (un bignami di florilegio: da Medium a Decider) che s’apprestano a ripresentarsi ad ogni scoccar di equinozio d’autunno e principiar di solstizio d’inverno – qui declinate tirando in ballo la evergreen (popular winter holiday-adjacent song) “Baby It’s Cold OutSide” di Frank Loesser del 1944 – trasformandole, con giusto qualche linea di dialogo, nel meme di loro stesse. Tipo come se Nanni Moretti inscenasse un pistolotto autoimmun(izzant)e su “Te la Ricordi Lella” di Edoardo De Angelis.
Produce Likely Story, distribuisce Netflix.
“Ogni cosa deve morire. È questa la verità. Ci piace pensare che ci sia sempre speranza, che si possa sopravvivere alla morte. Pensare che le cose miglioreranno è una fantasia unicamente umana, nata forse dalla consapevolezza unicamente umana che non lo faranno. Impossibile esserne certi. Ma sospetto che gli esseri umani siano gli unici animali consapevoli della loro inevitabile morte. Gli altri animali vivono nel presente. Gli umani non possono, quindi hanno inventato la speranza.”
In coda al pezzo sul romanzo di Iain Reid auspicavo che Charlie Kaufman potesse/riuscisse/volesse mettere in atto una sorta d’innesto atto a implicare in qualche modo un lieto fine alla tristezza cosmica che pervade e trasuda dalla pagina scritta, e in un certo senso è stato così: dall’horror (la vita intesa come un film di Robert Zemeckis: paura, eh?) si (tra)passa al musical (dagli esplicitati Rodgers e Hammerstein di "Oklahoma!" e dintorni al temporaneo e fittizio ritorno dalla morte di Bert Cooper in "Mad Men"), ma la paura, il terrore, l’annichilimento universali - dall'Autoinganno alla Consapevolezza, senza ritorno - rimangono gli stessi, medesimi, inamovibili: un oceano entropico che inghiotte la pioggia così come il tempo fissa, smuove, lacera le vite.
“You return home, moon-landed, foreign.” - Da “BoneDog” di Eva H.D. (poesia attualmente inedita), autrice di “ROttEN Perfect Mouth”, che Lucy sfoglia in casa dei genitori di Jack.
Quella ch’è una solarizzazione si trasforma in un terso cielo indaco che ingoia tutto il passato. Ecco, esiste solo il presente. E, per un po’, persiste. Continua ad esistere, insistentemente. Cinguettano persino gli uccelli stanziali, anche s’è pieno inverno. Perché splende il Sole. E siamo rimasti solo noi (mi sembra d’intravedere Polanski e Lynch, Resnais e Tarkovskij, Buñuel e Bergman, laggiù), alla fine della storia, mentre gli alberi spogli si stormiscono transitivamente di dosso un po’ di neve dai rami. Loro stanno fermi, e il tempo li attraversa e scrolla. Come tutti quei fotoni riflessi da tutto quel fresco e bianco manto immacolato, cristallizzato. Un fottuto specchio di neve. Così morto, che potrà tornare a vivere, dopo esser fioccato, solo sciogliendosi. Brulicando...
...cercami sull'altalena / dondolati con me...
...cercami nell'aldilà, dentro gl'inganni altrui, e dentro i miei...
...non ho più sangue da darti: potrò mai perdonarti per avere rubato i miei anni?
Being Charlie Kaufman.
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