Regia di Anthony Scott Burns vedi scheda film
Mioclonie [Segn(al)i di Vita].
Per un’ora e un quarto il film - ch’è il secondo lungometraggio, dopo “Our House”, di Anthony Scott Burns (canadese, classe 1977), anche sceneggiatore (da un soggetto scritto con Daniel Weissenberger), direttore della fotografia, montatore e co-autore (con Electric Youth e attraverso lo pseudonimo di PilotPriest) delle musiche - regge bene, muovendosi nei territori esplorati - per citare solo alcuni dei lavori più famosi e capostipiti degli anni ‘80 e ’90 trattanti varie branche appartenenti a un sottogenere dell’Hard SF: il cervello umano - da Ken Russell con “Altered States” (memoria collettiva ancestrale), da Douglas Trumbull con “BrainStorm” (affini tematiche a mezza via tra l’opera precedente e quella successiva), da Kathryn Bigelow con “Stange Days” (registrazione multi-sensoriale delle reali esperienze vissute altrui) e da Alejandro Amenábar con “Abre los Ojos” (risvegli), poi succede il patatràc, il coito fatale, il pucciamento del biscotto, e la scena è talmente mal girata (PdV della MdP, stacchi di montaggio, campo/contro-campo, ralenty, etc…) da riuscire, per un lungo momento, a far ripensare a ciò cui si è assistito fino ad ora come ad un enorme intervento del dio della fortuna (oltre che all’improponibile/irricevibile cinema di Drake Doremus), e invece non è proprio del tutto così, perché da lì in poi il film subisce/perpetra un altro scarto...
...che consiste in un continuo accumularsi progressivo di tensione veicolata dalla suspense (ad esempio − superato l’effetto “Saturazione dell’Uso a Cazzo della Camera 237” e il momento, telefonatissimo, del ritrovamento dello smartphone, risolto però con una certa coerenza e plausibilità −, attraverso la lunga sequenza sfiancante della “rincorsa rallentata’’ nel parcheggio sotterraneo, senza che il preoccupato inseguitore per un lungo periodo - proprio come spesso accade nei sogni - riesca mai a raggiungere la fuggitiva sonnambula), tutta volta al raggiungimento del… primo dei finali - chè sì, dai 95’ in poi, per 5’, sino cioè al termine, di conclusioni se ne contano, susseguono ed accavallano almeno ben 4 -, con l’ultimo di Hard SF (un po’ appiccicato con lo sputo, m'al contempo profondamente in linea con la poetica di P.K.Dick) che riscatta il penultimo veramente folle (ma “bello” nella sua totale insensatezza “desmodontide-canina”), dopo che il primo (abduzione da parte dell’Uomo Nero: non altro che l’inverazione/incarnazione del titolo: il mito ancestrale collettivo che diventa vero, reale, concreto; e figurativamente un pensiero corre a "lo Zio Boonmee che si Ricorda le Vite Precedenti" di Apichatpong Weerasethakul) era stato fagocitato da un secondo (assassinio involontario durante un incubo lucido) molto grezzo.
"Queste sono esperienze ipnagogiche. È il cervello che cerca di dare un senso all'ingresso ridotto di input sensoriali che sta ricevendo mentre addormentandosi perde la coscienza di sé."
"Alla fine, tutti finiscono qui, così."
"È una finzione naturale. Queste immagini dimostrano una sorta di connessione primordiale con questa icona. Una paura unificata e comune verso quest’ombra con gli occhi."
La parte migliore dell’opera è senz’altro, oltre all’interpretazione e alla presenza scenica della protagonista, Julia Sarah Stone (“Wet Bum”, “Every Thing Will Be Fine”, “Weirdos”, “The Unseen”, “A Worthy Companion”, “The Marijuana Conspiracy”), la resa filmica della costruzione degli incubi: l’immaginario quello è [Escher (nei sogni lo spazio e il tempo collidono e non collimano), Giacometti (Close Encounters), Dalí (e Basevi nella “pseudo-psicanalisi” dello “SpellBound” di Alfred Hitchcock semi-mutilato da Selznick, e poi De Chirico, Magritte, Ernst…) e Bacon, con la decostruzione del boogeyman debitrice di quella in cui le vittime vengono scomposte e digerite in “Under the Skin” di Jonathan Glazer], ma è pure utilizzato e rielaborato ottimamente, con carrellate in avanti su steady-cam montate su binari in avanti a percorrere ed attraversare scenografie reali punteggiate ed integrate da effetti speciali digitali che creano un impatto visivo e sonoro veramente - e, beh, paradossalmente - iperrealistico, e ch’è forse una delle migliori rappresentazioni del mondo onirico licenziata dal cinema (tra i produttori esecutivi, Vincenzo Natali) degli ultimi anni.
“Non c’è nessuno nella stanza 237! A parte - data la doppia negazione - Audrey Horne, la Ragazza che Vive in Fondo alla Strada…”
* * * ½ (¾)
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