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L'estate di Kikujiro

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'estate di Kikujiro

di yume
9 stelle

Kitano sposta le emozioni dalla superficie, le ricaccia giù nel profondo dove diventano materia vibrante, dolore che non ha parole, vita in corso d’opera.

Un bambino con due buffe alucce bianche applicate sullo zainetto azzurro corre verso la scuola.

E’ l’ultimo giorno prima delle vacanze.

All’uscita chiede al compagno cosa farà adesso.

Andrò al paese di mio padre, è bello, è vicino al mareBeato te!

Nove anni e tanta solitudine, d’estate è ancora peggio, finiti gli allenamenti a calcetto, partiti tutti i piccoli amici, nessun papà o mamma che facciano progetti per lui. La nonna lavora, pensa già a tutto, non può fare di più.

Bisogna inventarsi qualcosa, e cosa può inventare un bambino che non ha mai visto la mamma perché pare che sia lontana a lavorare? Andare a cercarla, ovvio! E lui parte, da solo, un bambino non sa  quanto è brutto il mondo dei grandi.

Lo intercetta la vicina di casa, quella che nelle fiabe normali sarebbe la fatina buona qui è una brunetta sbrigativa e  decisa che, senza tanti preamboli, ordina a quel balordo un po’ catatonico di suo marito di accompagnare il piccoletto senza tante storie, veda piuttosto di farsi bastare i cinquantamila yen che gli dà.

Parte così la strana coppia, Masao, paffuto gnometto dall’aria triste e Beat Takeshi, buffo clown a metà tra Buster Keaton e Charlie Chaplin, per un lungo viaggio strampalato, mezzo a piedi e mezzo in autostop (i soldi lui se li è giocati alle corse in men che non si dica, e si è fatto anche dare i duemila yen di Masao).

Sulla strada c’è di tutto, camionisti sgarbati a cui rompere il tergicristallo con una pietrata, un poeta filosofo che ha “tempo da perdere” ed è convinto che le cose “basta chiederle con gentilezza per averle”, mimi e giocolieri spuntati al momento buono per dare un passaggio e improvvisare qualche numero, motociclisti metallari con una vocina tenue tenue che danno senza fiatare l’ “angelo campanellino” appeso al manubrio al balordo, sempre pronto a far la voce grossa: “Dammelo, scemo, sennò ti smonto il motore!”.

 

In un’atmosfera da slapstick comedy, con gags disseminate a ripetizione, demoniache coreografie del butoh negli inserti onirici dei sogni/incubo del bambino (non manca neanche il pedofilo di turno messo ko come si conviene in una scena censurata nella versione italiana e poi ripristinata in DVD), scorre tutta la violenza della realtà e i due esclusi l’attraversano, ma l’iconoclastia raggelante di Kitano compie il miracolo di raccontarcela così com’è, cioè normale, basta il fermo immagine sulla sua faccia, quando finalmente arrivano al paese della mamma di Masao e scoprono la realtà.

La ruvida scorza del burbero evita allo spettatore lacrime amare, ora bisogna ripercorrere all’inverso la lunga strada e tornare in città.

Sfila un Giappone on the road da gita domenicale fuori porta, giostre di paese, motel di asettica pretenziosità con statue disseminate e piscina incorporata, statali su cui non passa mai un autobus  sotto il sole a picco, e il mare, quel mare stupendo, ampio, musicale e spumeggiante in fondo al campo lunghissimo della spiaggia vuota, dove Masao diventa un puntino lontano che piange.

Mentre le onde sonore di Hisaishi si mescolano a quelle del mare, i due si allontanano in silenzio lungo la riva e stavolta si danno la mano.

Kitano sposta le emozioni dalla superficie, le ricaccia giù nel profondo dove diventano materia vibrante, dolore che non ha parole, vita in corso d’opera.

Due destini possono incontrarsi anche così, ai bordi delle strade, e il nome, quel breve mucchietto di suoni che annulla le distanze tra gli uomini appare, alla fine, e sostituirà quel timido “signore” del piccolo Masao.

Signore, qual è il suo nome?” , “Kikujiro! e adesso a casa di corsa”.

Piccola curiosità:Kikujiro è il nome del padre di Kitano.

 

 

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