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L'umanità

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su L'umanità

di Argotico
9 stelle

Credevo, dopo aver visionato tempo addietro Twentynine Palms, che Dumont fosse potentemente ispirato, senza tuttavia esserne totalmente consapevole, al pari di una menade; la visione di Hadewijch mi aveva fatto parzialmente ricredere, e l’idea che oltre a una certa ispirazione vi fosse una qualche consapevolezza non la trovavo peregrina. E se Hors Satan mi aveva dato la certezza addirittura che dietro la figura del regista si celasse quella di un alchimista (non si spiegherebbero in altro modo, in un cinema millimetrico come il suo, certi passaggi parlanti del film, come per esempio l’ankh alla base della colonna vertebrale della viandante esorcizzata da le gars), L’Humanité me l’ha confermato come una pietra tombale.

 

http://www.pinterest.com/pin/427067977136964925/

 

La cosa divertente degli alchimisti di ogni tempo e luogo è che questi, per ragioni di sicurezza soprattutto, ma anche per una naturale propensione alla beffa da un canto e all’enigma dall’altro, hanno sempre occultato il proprio dire attraverso spessi strati di cose inutili, avendo tuttavia cura di lasciare le cose più importanti sempre in bella mostra: il luogo che meno di qualunque altro dà nell’occhio. Imbattersi in un trattato alchemico e non possederne le chiavi significa inesorabilmente perdersi tra mille ghirigori inutili, significa letteralmente venir presi in giro. Insomma; gli alchimisti hanno sempre e solo parlato (scrivendo) ad altri alchimisti, essendo la lingua loro sigillata per chiunque altro.

 

Ne L’Humanité Dumont dimostra, quanto a enigmi sfingici, di non essere da meno dei Fulcanelli o degli Arnaldo da Villanova, dei Michael Maier o degli Stolcius von Stolcenberg: insomma di tutta una schiera di buontemponi che avevano come unico, umile scopo quello della vita eterna: che poi siano venuti a capo dell’abissale impresa, questo è tutt’altro paio di maniche.

 

Noto qui solo alcuni elementi singolari del film, a mio avviso parlanti, senza tuttavia entrare nel merito dei riferimenti più palesemente alchemici.

 

Anzitutto il quasi incipit e lo speculare quasi explicit del film: L’origine del mondo di Courbet. E anche se il secondo termine è distante una ventina di minuti dall’explicit vero e proprio, ritengo plausibile pensare a questa doppia citazione pittorica come agli estremi confini entro i quali Dumont abbia inteso situare l’umanità stessa. E credo che l’equazione, di marca gnostica, Mondo = Male, non sia peregrina.

 

http://www.pinterest.com/pin/427067977136964905/

 

E se il mondo, e quindi lo spazio-tempo nel quale l’umanità è incastrata, occupa il più del film, sembrerebbe tuttavia esserci un prima e un dopo. Il prima è una corsa per un crinale, che termina faccia a terra, letteralmente. Adamo, l’uomo primordiale, significa del resto terra rossa. Ed è singolare che una delle ultime inquadrature che precedono la prima citazione pittorica Dumont la riservi a un aratro.

 

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En passant, faccio notare che l’alchimia è anche detta agricoltura celeste, con ciò intendendosi che è la propria terra interiore, degradata (sorta di wasteland), a dover essere pazientemente arata per poterne cavare frutto. E non credo casuale che Pharaon si prenda cura di un giardino chiuso, e che la scena madre, quella simbolicamente possente della levitazione, avvenga proprio all’interno del giardino ormai fiorito (l’opera compiuta gli alchimisti la chiamavano anche hortus conclusus), preceduta da un contatto intimo di Pharaon con un fiore, ovvero con una parte interna a sé, non esterna. E dal momento che il nome Adamo significa terra rossa, si capisce che quando Pharaon lavora la terra del giardino in realtà sta lavorando la propria terra interiore, sta operando dentro di sé. Come se non bastasse, il GAN ADN è, nella bibbia, proprio il giardino chiuso di Adamo ed Eva, ovvero l’eden (e tra ADN e DNA il passo è breve: qui chi ha orecchi intenda).

 

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Ci si potrebbe interrogare sul motivo per il quale un Dumont abbia scelto un attore che pare aver stampato sul viso una dolente e perenne maschera stuporosa: ritengo per marcarne con forza la diversità dal resto del bestiame umano del film. Quella maschera segna da un canto la consapevolezza della propria colpa (e l’implicita consapevolezza della necessità di rimediarvi), dall’altro la capacità di meravigliarsi nei confronti dei baluginii che trapelano dalle cose del mondo, che Pharaon sembra possedere in sommo grado rispetto a chiunque altro, caratteristica comune di tutti i viandanti.

 

http://www.pinterest.com/pin/427067977136964935/

 

Anche il nome Pharaon De Winter, sebbene mutuato da un pittore realmente esistito (che nella finzione filmica è suo nonno), ha un significato a mio avviso simbolico, e ancipite. Nell’Egitto in cui la scienza sacra ancora non si era degradata a idolatria, infatti, il faraone era il sommo iniziato ai segreti alchemici; ma a un livello di interpretazione in chiave biblica, che credo Dumont non ignori, il faraone è l’ego umano da trascendere, la personalità transeunte legata a un corpo di carne e ossa, e se a quel nome inteso in tale accezione si associa il concetto di inverno (l’inglese winter), che in alchimia corrisponde all’iniziale fase nigredea della putrefactio, i conti tornano. Pharaon è l’uomo carnale che, degradato ab origine nella materia, nella dualità (questo rappresenta il sesso, la separazione duale del mondo), nel ciclo continuo di nascita e morte della reincarnazione, deve ricostituire la propria unità originaria: non all’esterno, ma all’interno di sé. La levitazione ritengo che possa essere una allusione figurale a questo possibile superamento attraverso proprio l’agricoltura celeste.

 

Rimane, quasi insondabile, l’enigmatica scena finale; nel momento tuttavia in cui si comprende che Pharaon rappresenta solo uno stadio dell’Opus alchemicum, un livello da trascendere, uno stato di coscienza iniziale da superare, da sacrificare, forse il nodo è più facile da sciogliere. Le campane che risuonano flebili, in tal senso, e al suono delle quali l’espressione inizialmente trasognata del protagonista si fa seria, rappresentano un duro monito, per qualunque componente di questa umanità. Per chi suona la campana? Suona sempre per te, caro Pharaon, uomo di carne, chiunque tu sia, e il suo suono è sempre a morto.

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