Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Il corpo brutalmente violentato di una bambina viene trovato nelle campagne di una piccola provincia delle Fiandre. Indaga sull’efferato delitto il commissario della piccola stazione di polizia (Ghislain Ghesquère) coaudivato dall’ispettore Pharaon De Winter (Emmanuel Shottè). E‘ soprattutto Pharaon ad interessarsi del caso, ma non ha niente in mano, nessun indizio, nessuna pista da seguire, solo vaghe ipotesi. Poi lui è l’antitesi del poliziotto, perso come sembra nel ricordo delle sue ferite recenti. Pharaon è un uomo mite e taciturno, ha perso la moglie e il figlio due anni prima e mostra tutti i sintomi di chi ancora deve mettere in sesto le proprie cose. Si accompagna spesso alle uscite di Domino (Sèverine Caneele), una vicina di casa di cui e segretamente attratto, e Joseph (Philippe Tullier), una coppia di amanti “focosi” che si rapportano a lui con un atteggiamento che va dal tentativo della ragazza di farlo evadere dall’isolamento emotivo in cui si è ficcato, alla derisione del ragazzo per la goffaggine del suo aspetto.
“L’umanità” (Premio speciale della giuria a Cannes) è il secondo film del “regista-filosofo” Bruno Dumont e come “L’età inquieta” che lo ha preceduto, oltre ad essere ambientato nella campagna aspra e brumosa delle Fiandre, è attraversato da una cappa di evidente insofferenza per la vita, una sensazione questa che si avverte più scavando tra le pieghe emozionali delle cose che non vengono dette o fatte, che prestando attenzione all’inconsistenza esistenziale che viene chiaramente esibita attraverso lo scorrere vacuo delle giornate dei protagonisti. Ci sarebbero vuoti da riempire e parole da pronunciare, ma, alla messinscena conseguenziale delle emozioni, Dumont mostra di preferire una narrazione ellittica che fa perno sulla nuda rappresentazione dei silenziosi spasmi del corpo, quelli che ,se da un lato, possono liberarsi nel muto appagamento dei bisogni fisiologici dell’uomo (il sesso senza amore come la brutale uccisione di una bambina), rischiano, dall’altro lato, di imprigionare nella casta innocenza di (un) Pharaon urla di dolore che anelano una liberazione definitiva. Il cinema di Bruno Dumont aderisce con rigore quasi bressoniano alla realtà fattuale, anche se ciò che intende principalmente catturare sono la noia e il vuoto esistenziale che ad essa possono irrimediabilmente legarsi, entità astratte che sanno produrre effetti sulle persone di disarmante concretezza sistemica. L’ampiezza delle inquadrature somiglia ad un quadro che tende a fissare per l’eternità l’umana precarietà del vivere, si concentra sull’insieme di piccoli gesti insignificanti per ricondurci alla spoglia antispettacolarità della vita, mostra il nulla apparente per restituirci il lato più disperatamente legato alle sorti dell’umanità tutta. Ecco, l’antispettacolarità del cinema di Bruno Dumont aderisce ad un idea di mondo che fa degli emarginati sociali l’oggetto di massimo interesse, quelli che rimanendo fuori dalla generale ostentazione delle “felicità occidentali” si riscoprono prigionieri forzati del grigiore che ha preso piede nelle proprie vite, avvolti in un rapporto contrastato e complice insieme con i luoghi che vivono e abitano, con la verginità della nuda terra che calpestano a ricordargli le radici dei loro destini e un silenzio assordande che il tempo non cicatrizza mai. In fondo, l’indagine di polizia è solo un pretesto per certificare i sentori di una tragedia ampiamente annunciata, una tragedia prodotta da un sistema di cose dove il sesso fisico senza alcun coinvolgimento emotivo (aspetto questo molto presente nel cinema di Dumont), uno sciopero preparato a lungo ma durato solo poche ore (quello della fabbrica dove lavora Domino), un infruttuoso viaggio in Inghilterra per seguire uno sterile indizio, l’inaffettività che qualifica i rapporti interpersonali e la perdurante inazione che li caratterizza, ci danno sufficienti notizie sulle sorti di un’umanità anonimizzata dalla sofferta apatia di cui si è resa vittima inconsapevole. Di questa parabola “sui vinti” dal carattere sociale marcatamente cristiano, Pharaon rappresenta l’uomo capace di contenere nel suo sommesso dolore tutta la sofferenza del mondo. E’ un antieroe senza pistola Pharaon De Winter, con una bambina brutalizzata che gli ricorda ferite ancora sanguinanti e senza alcun indizio concreto da cui poter partire. Ha tanta tristezza negli occhi, si accompagna alle uscite di Domino e Joseph per tentare di rubare alla vita scampoli di disinteressata allegria. Reca conforto proprio a tutti, innocenti o colpevoli che siano, e a ognuno reca un segno della sua compassione, come a voler assaporare gli ultimi vagiti di una dismissione della bontà che si è fatta sistema di vita. Lui, che di compassione ne avrebbe bisogno più di tutti.
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