L'invisibile non si filma
Presentato in concorso al 52esimo Festival di Cannes, dove David Cronenberg lo ha premiato con il
Grand Prix,
L'umanità di Bruno Dumont è un film essenziale per avvicinarsi al "nuovo cinema mistico" di questi anni (Reygadas, Weerasethakul, Serra), di cui il film di Dumont è stato, a tutti gli effetti, precursore. Il secondo lungometraggio del regista francese, infatti, nonostante le premesse (ambientazione in provincia, sequenze di scioperi), non è un film di denuncia sociale, e non è realistico. Parte sicuramente dalla realtà, ma per andare aldilà: accumulando incongruenze sempre maggiori, si apre a una dimensione soprannaturale, che è il luogo-narrazione verso cui tenderà tutto il cinema successivo di Dumont.
L'umanità, infatti, è un film che fa astrazione «della psicologia, del racconto, per essere nel fondo delle cose»; un film tutto tempo e (in)azione, sensazioni e (falso) movimento. Nessun pensiero, nessuna emozione precostruita: semplicemente un film sull'umanità, come promette il titolo, ovvero un film su un qualcosa che non si può mai vedere davvero – letteralmente, un film sull'invisibile. Dumont, però, ci avverte: l'invisibile non si filma. Come fare? «L'ordinario – dice il regista – è l'espressione dell'invisibile. Il mondo di tutti i giorni nel film è soltanto l'aspetto visibile dell'invisibile, la sua forma, la sua espressione.
E l'invisibile non si filma, e ogni tentativo di filmarlo è in partenza stupido e senza senso. Devi camminare, filmare. Aspettare. Non c'è un altro modo di andare oltre: è questa l'arte del cinema». Per questo, Dumont cerca di dare immediata concretezza al sentimento del titolo, tenendo il suo film su un'espressività accentuata, attraverso l'uso evocativo dei paesaggi e della dimensione sonora, e un montaggio che lega campo e fuori campo.
Da questo punto di vista, l'incipit de
L'umanità è particolarmente significativo, e rappresenta un momento seminale per i film successivi di Dumont, da
Twentynine Palms (2002) a
Hors Satan (2011).
L'umanità si apre su un campo lunghissimo in Cinemascope, ma quel che vede lo spettatore è qualcosa che eccede l'immagine: è un paesaggio dell'anima per analogia. La pista sonora, infatti, non è occupata dall'ambiente naturale, che domina prepotentemente l'inquadratura, bensì dal respiro del protagonista, una figura piccolissima nello spazio dell'immagine, sbalzata però in primo piano dalla messa in scena anti-realistica e sinestetica di Dumont.
La sinestesia, con l'analogia, è quel procedimento espressivo che meglio si adatta agli scopi del regista di
Hadewijch (2009): evocare pasolinianamente il mistero del reale attraverso la vita quotidiana, perché «
il mondo di tutti i giorni (...) è soltanto l'aspetto visibile dell'invisibile, la sua forma, la sua espressione». Il visibile, dunque, nasconde sempre qualcos'altro: per questo,
L'umanità è prima di tutto un film di cose, di corpi, di luoghi.
Articolo già pubblicato (in una versione più estesa) qui: http://specchioscuro.it/lumanita/
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