L'esordio nel lungometraggio del regista danese è un atto di devozione verso i suoi maestri, punti di riferimento quali Welles, Dreyer, Tarkovsky. Proiettato verso una ricerca formale che vuole innovare un cinema europeo degli anni 80 abbastanza statico, reinterpreta o meglio reinventa il noir americano contaminandolo con un'immagine in apparenza disomogenea e dall'incedere narrativo e linguistico decisamente inconsueto. L'elemento del crimine è un film forse faticoso ed ostico alla prima visione, ma che non difetta in coerenza, che cattura sprigionando un fascino sinistro e decadente. Come si riscontrerà, oltre che nella cosidetta trilogia europea del regista, l'uso suggestivo delle immagini con i movimenti di macchina e un montaggio maiuscolo si ritroveranno nei successivi Dogville e Manderlay dove Von Trier lascia letteralmente sprofondare lo spettatore in un impianto scenico unico dove invece fare realizzare situazioni diverse che però paiono fatalmente collegate. Tornato in Egitto, il detective Fisher ricostruisce sotto ipnosi con l'aiuto di uno psicanalista, un'indagine su alcuni omicidi seriali che ha seguito tempo prima in Europa. Le sue ricerche sono state condizionate dall'osservazione scrupolosa dei princìpi contenuti nel libro L'elemento del crimine scritto da un suo vecchio professore, Osborne. Von Trier si muove liberamente fra immagini oniriche, realtà riprodotta, azione ridotta al minimo, flasback di ritorno e sovrapposizioni, unite dall'aridità dei testi classici da genere poliziesco, tenuto insieme da un forte collante visivo che con la sua ambientazione notturna riporta ai fasti storici dell'espressionismo tedesco. Fisher, all'inseguimento del misterioso omicida Harry Grey, arriverà ad identificarsi totalmente con lui per comprenderne le mosse come il libro insegna, tuttavia non sembrerà portare ad una svolta decisiva e finale ma più per cercare una personale ragione d'indagine. Imponente l'interpretazione simbolica, da un continente, l'Europa malata e annegata nei suoi vizi storici e avviata al declino, alle interrogative richieste della giovane ultima vittima, le nuove generazioni, alla resa della cultura, con il ritiro e la perdita della ragione di Osborne, al tentativo di ricorrere ai sentimenti e alla memoria con la statica azione di Fisher. L'elemento del crimine, rivelerà Osborne, è insito nella natura umana, è atto fecondo della sua autodistruzione e non saranno le scoperte di Fisher, ne la riflessione teorica del regista, a fermarne l'implacabile decorso. Allineato arditamente al genere a cui si riferisce, Von Trier non omette altri personaggi chiave del noir, dalla prostituta amante, al capo della polizia risoluto quanto incapace. Parallelamente al progredire del racconto Von Trier decostruisce il personaggio protagonista, Fisher abbandona se stesso quando si fa guardare dentro dallo psicanalista senza poterlo fare lui , egli tende alla metamorfosi ideale con l'omicida di cui è portato a comprendere l'azione che a chiedersi le ragioni della sua follia. Il suo è un tentativo disperato di contenere un ordine perduto, di ritrovare dei valori dispersi nella brutalità e nell'imbarbarimento della storia e dei suoi miti, sapendo che quel male che sta all'origine dell'uomo non può finire che con un male peggiore. Eppure Fisher ripeterà più volte: "Io credo nella felicità..". Appena nato, l'autore pensa già di morire...
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