Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Un oscuro e tormentato agente di polizia, ritornato al Cairo dopo un soggiorno di due anni in Germania, racconta , in una lunga confessione ipnotica al suo analista, la sua esperienza professionale in Europa sulle tracce di un pericoloso e sanguinario killer seriale di bambine. Le sue reminescenze, alla stregua di un allucinato ed onirico viaggio in un inferno uggioso e crepuscolare, ripercorrono il rischioso e controverso metodo di indagine che il detective apprende dalla lettura del manuale teorico del professor Osborne, suo maestro e mentore , e che si basano su una completa e totale identificazione con la psicologia omicida.
Come l'anarchico e libertario 'volo d'angelo' dei suoi allucinati e reietti contestatori sociali, il giovane regista danese Lars Von Trier decide di esordire nel lungometraggio con questa spericolata operazione di contaminazione cinematografica che, partendo dalle evidenti allusioni letterarie del soggetto (Borges?), si lancia in una detection crepuscolare in cui l'indagine poliziesca sconfina negli oscuri e insondabili territori della psiche umana e dove le allusioni metaforiche (un paesaggio postbellico di macerie e devastazioni flagellato da una pioggia incessante, uno stato marziale governato da violenti psicopatici e teorici 'mengeliani', un girone dantesco di carcasse putrescenti e di innocenti fanciulle orrendamente mutilate) segnano il cupo pessimismo di una civiltà alla deriva e dove qualunque processo di conoscenza della verità porta all'inesorabile identificazione con le infingarde perversioni della natura umana (l'elemento del crimine, appunto). Sospeso tra poliziesco e apologo morale, tra onirismo e dramma filosofico, tra Borges e Borroughs, il racconto di Von Trier fa continuamente la spola tra il tempo della narrazione (una dimensione psichica di rimozione e recupero del rimosso) e il tempo del racconto (un viaggio kafkiano tra 'interminabili corridoi con il nulla dietro l'angolo' e le orripilanti trasformazioni di una allucinata identità: 'questo mal di testa non mi appartiene!') nel tentativo vieppiù di scoprire le carte di un gioco di rimandi e dove si confondono necessità ed ineluttabilità; tra falsi indizi e prove certe una disperata e ossessiva battuta di caccia tra il fantasma della colpevolezza e l'orrore della rivelazione. Virato sui cromatismi rossastri di una fotografia crepuscolare e afflitto dai facili espedienti di una artificiosa obsolescenza scenografica, è un viaggio cupo e affascinante alle origini del male (un male antropologico più che sociale, psicologico più che culturale) e dove l'incessante echeggiare dei dialoghi scandisce il percorso e segna il limite teorico di una impossibile conoscenza (Harry Grey è mai esistito veramente oppure è solo la patologica emulazione di un'emulazione criminale?). Non ostante le tracce di una sicura impronta autoriale il film di Von Trier pare schiacciato dal peso della cogente ambiguità della materia trattata (troppi temi? troppe citazioni? troppe allusioni?) e segnato dalle incertezze formali di un linguaggio abbozzato e artificioso che misurano la distanza tra la grandezza delle ambizioni ed i limiti della messa in scena. Comunque meritato Grand Prix tecnico al Festival di Cannes 1984.
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