Regia di Ruben Östlund vedi scheda film
Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean) sono due modelli molto richiesti. Lui vive nell'insicurezza di perdere il suo appeal, lei è un'influencer che cerca sempre di stare sul pezzo. Stanno insieme, ma più dell'amore sembra contare il fatto di apparire come la coppia perfetta. Dopo la settimana della moda di Milano, si ritrovano su uno yacht extralusso per una crociera da nababbi in compagnia di magnati russi, vecchi attempati in cerca delle ultime emozioni e un capitano (Woody Harrelson) dichiaratamente marxista. Dopo una nottata passata in balia del mare in tempesta, si ritrovano naufraghi su un’isola insieme a pochi altri superstiti. Qui le redini in mano vengono prese decisamente da Abigail (Dolly de Leon), la cameriera filippina che lavava i cessi della nave, decisa a ribaltare quei ruoli sociali rigidamente canonizzati.
La macchina da presa insiste con dei piani fissi su dei giovani modelli impegnati per un casting di alta moda. Poi passa dal filmare la materialità di questi corpi scolpiti che investono nella bellezza tutte le loro aspettative di successo, a catturare l’immateriale vaghezza dei discorsi di Carl e Yaya, che mettono in pausa l’evidente opportunità di avere la felicità a portata di mano mettendosi a discutere lungamente su chi dei due dovrebbe essere più ricco e fin quanto li sosterrà la loro giovane bellezza.
Così inizia “Triangle of Sadness” di Ruben Ostlund (premiato con la Palma d’oro a Cannes), immergendoci sin da subito nella vacuità delle relazioni umane e nella vaghezza di ragionamenti che girano a vuoto. E così continua, perché il cinema dell'autore svedese tende a riflettere sulla forma che si mangia la sostanza, sul contenitore che svilisce il contenuto, sulle relazioni umane avvinte da una palpabile sensazione di falsità. Ruben Ostlund è diventato un autore di spicco nel panorama del cinema contemporaneo per la dimostrata abilità nel dare delle soluzioni visive convincenti all’immateriale astrattezza delle sensazioni. Sono sempre i dettagli a muovere lo sviluppo della storia, quegli aspetti solo apparentemente insignificanti, rinvenibili nei dialoghi lunghi e stancanti, nella ricercata vicinanza degli opposti, nell’eleganza ostentatamente classista dei ricchi. Accumulatori privilegiati sono i corpi, perché sono sempre i corpi a rappresentare l'avanguardia di tutto ciò che interviene a mettere in crisi le forme consolidate dell’esistente. È stato così in “Forza maggiore”, dove tutto ruota intorno all’impercettibilità di un gesto che mette in seria crisi un matrimonio, così è stato in “The Square", dove la trasmissione virale dell’arte contemporanea si fa riflessione sulla sua effettiva capacità di comunicare significati.
Così è anche in “Triangle of Sandess”, che sin dal titolo fa riferimento a quella parte del volto che delimita lo spazio facciale compreso tra le ciglia e la parte superiore del naso. Il cosiddetto triangolo della tristezza (o altrimenti chiamate rughe d’espressione), che delimita quella parte del volto dove le rughe aumentano con il passare dell'età. Ed ecco il protagonista impercettibile del film, ciò che attenta alla vanità di Carl e Yaia mettendo in discussione la fede incrollabile per la loro bellezza. Loro rimangono al centro di una storia che nella sua articolazione in tre parti fa perno sulla satira feroce contro la bellezza fine a se stessa e la parassitaria improduttività dell'alta borghesia (con delle analogie poetiche con il Bunuel de “Il fascino discreto della borghesia”).
Con l’autore svedese, c’è sempre molto contenuto dietro l'apparente evanescente della sua regia. Perché si può dare un senso al vuoto riuscendo a dare delle soluzioni visive adeguate alla sua essenza speculativa, oppure si può più semplicemente filmare il pieno che produce il nulla. Il film vive di eccessi voluti ed iperboli studiate : le manie dei ricchi vengono assecondate ben oltre il più ragionevole dubbio, così come la rigida suddivisione in classi vive di una caratterizzazione troppo stereotipata per non rivelarsi satirica.
L'estrema vacuità di quasi tutti i dialoghi che si ascoltano, le onde di vomito, piscio e merda che sommergono lo yacht, il fragore vendicativo di cui viene fatta oggetto l'imbarcazione “dei ricchi”, l'organizzazione gerarchica che si danno i naufraghi. Questi sono tutti aspetti della narrazione volutamente portati da Ostlund fino al limite estremo della loro ragionevole comprensione. Ma il punto è che al cinema (così come in ogni altro campo della creatività umana), l’attendibilità dei contenuti speculativi che si intendono far emergere si può ottenere anche conferendo alle iperboli narrative le funzioni simboliche e formali cui vuole fornirsi il film. Detto altrimenti, i luoghi comuni abbondano perché è di questo che si nutre la mediocrità imperante. E a queste condizioni, si è tutti come dei naufraghi potenzialmente condannati a ripensarci ogni volta come degli animali politici nati per essere socialmente organizzati (e qui sono certo che Ostlund abbia risentito dell’influenza del grande scrittore svedese Stig Dagerman, le cui riflessioni anarchico libertarie trovano delle similitudini abbastanza marcate con quelle del film soprattutto nel romanzo “L’isola dei condannati”).
Già si è accennato al fatto che “Triangle of Sadness” si divide in tre parti tra loro complementari. Della prima già si è scritto all’inizio, con i due protagonisti avvolti nell’eleganza patinata delle sfilate milanesi. La bellezza domina in ogni dove e sembra che basti questo per rimanere saldamente in groppa a questa leggera illusione. Nella terza parte, Carl e Yaya sono naufraghi insieme a pochi altri su un’isola misteriosa. Si azzera tutto, ognuno pensa a sé e tutti insieme cercano di sopravvivere. Occorre organizzarsi per uscirne vivi e le redini in mano vengono prese dalla cameriera filippina della nave, a cui tutti concedono il potere perché si è dimostrata più abile di altri nel familiarizzare con due aspetti atavici della natura umana: gestione delle razioni alimentari e dominio sugli impulsi sessuali. La terza parte è tutta ambientata sullo yacht, tra capitalisti russi e un comandante che non nasconde la sua fede comunista ; tra i membri dell'equipaggio che vivono con servizievole disciplina il loro ruolo di sottoposti e gli inservienti addetti alle pulizie che vivono nella pancia della nave la loro condizione di servitù coatta. Ma è tutta la parte in cui la nave è in balia del mare in tempesta a rappresentare la pietra angolare di tutto il film. Quando un’ondata di vomito inonda letteralmente la scena, quasi a prendersi gioco dell’ostentata alterigia dei ricchi borghesi. Quando la degradazione morale degli illustri ospiti si mostra senza veli perché niente e nessuno può impedirgli di dare libero sfogo alla sofferenza del corpo (e qui riaffiora ancora Bunuel in filigrana). Quando gli unici a rimanere saldamente ai loro posti sono tutti i lavoranti della nave, deputati a rimettere tutto a posto. Quando a fare da sfondo sono le beffarde invettive marxiste pronunciate a vivavoce dal comandante.
Ecco, Ruben Ostlund esagera, riempie l’inquadratura di cose chiedendo allo sguardo di assecondare con pazienza il suo fare iconoclasta. Eccede nelle iperboli proprio per conferire credibilità ai contenuti sottintesi nel suo modo di satireggiare contro la vacuità incipiente. Come in “The Square”, “Triangle of Sadness” è immerso dentro lo stato delle cose così com’è nel suo continuo divenire. E può risultare ostico, cerebrale, a tratti anche incomprensibile, ma conserva il merito affatto da sottovalutare di non lasciare mai indifferenti. Avercene.
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