Regia di Riccardo Grandi vedi scheda film
Dal 2010 il cinema italiano ha saputo rinnovarsi, innovarsi e rigenerarsi, anche proprio ripartendo dai generi, dalle loro ibridazioni e da nuovi immaginari. Questa lenta e continua evoluzione, che riprende fila abbandonate verso la metà degli anni ’80, quando si trascinavano i resti dell’epoca d’oro del cinema di genere italiano, non sembra ancora aver messo d’accordo né il grande pubblico né la critica né gli addetti ai lavori. Uno di questi motivi è la scarsa percezione stessa del genere come forma narrativa cinematografica, tant’è che è molto facile trovare qua e là recensioni, più o meno positive, dove però emerge sempre un’indulgenza provinciale, pretina, di concessione compiaciuta che non si può accettare. Leggiamo per esempio cosa dice Rocco Moccagatta su FilmTv di La belva (Ludovico Di Martino, 2020): «[…] la possibilità che (ri)facciamo cinema di genere credibile (ed esportabile!) con i nostri migliori attori, sfibrati da anni di film d’autore senza capo né coda e commediole fotocopia, è sempre più concreta. Però il ritmo qua e là s’inceppa, l’energia, innegabile, non sempre ben orientata. Ancora un piccolo sforzo!». A parte gli esclamativi che si potevano risparmiare, si può benissimo leggere nemmeno tra le righe la “pezza” che si è soliti mettere per salvare un prodotto che poteva essere fatto meglio. La critica sta trattando i nostri film come dei bambini piccoli che stanno imparando a camminare, accontentandosi del proverbiale “piuttosto”. No, non possiamo infatti accontentarci di un prodotto mediocre solo perché stiamo (ri)cominciando, come cinematografia, ad avventurarci in quel territorio – per alcuni autori un territorio davvero nuovo ed inesplorato – checché ne dica Mereghetti, sempre su FilmTV, ci sono ottimi autori che non hanno mai visto Andrzej Wajda e fanno comunque ottimo cinema.
Detto questo, il film di Grandi non si può applaudire solo perché è il tentativo, anche in buona parte riuscito, di confezionare un buon mystery-thriller – più volgarmente parlando, un “giallo” – lontano dalle sensibilità estetiche italiane degli ultimi trent’anni. Bisogna invece arrabbiarsi ancor di più perché poteva ben spingersi oltre. Secondo le parole dello stesso regista, il film inserta in flashback una notte di sballo a base di sesso, droga e alcol insistendo sul fatto che proprio il racconto di quella notte faccia emergere le dinamiche giovanili che poi si ripresentano ad anni di distanza per chiedere il conto. Peccato che tutta questa trasgressione sia solo un opaco fondale senza attimi di perturbazione né barlumi di vera trasgressione – se la forma è il contenuto, qui la forma latita. Dopotutto, i cliché abusati non vengono utilizzati come variazioni sul tema: abbiamo il solito banale bel ragazzo che copula con tutte le ragazze possibili comprese le mamme degli amici (patetico); abbiamo un abbozzo di tensione omoerotica appiccicata come una pezza alla sceneggiatura; abbiamo svolte narrative che arrivano improvvisamente senza essere state anticipate – vecchio vizio della narrazione all’italiana di stampo televisivo; abbiamo amori, tresche, amicizie di cui non abbiamo capito l’identità. E così via.
Tutto il resto invece regge benissimo. La direzione è davvero buona. La messa in scena è ispirata, anche se manca un commento personale nello sguardo registico, a cui viene preferita l’immagine standard del prodotto commerciale. Sicuramente sono da applaudire scelte tecniche come la set decoration, asciutta, minimale e volutamente scarna, come l’ambiente innevato e le montagne che circondano la baita sperduta. Un’ambientazione per sottrazione, quindi un palco teatrale, per il gioco al massacro dei quattro protagonisti. Anche qui un cliché – pochi personaggi in ambiente chiuso – che avrebbe potuto essere trattato diversamente. Difatti, nonostante stiamo parlando di quattro attori tra i migliori della loro generazione – Moccagatta, su FilmTv parla di “giovani maschi alfa” (?!), io anzitempo e con certa lungimiranza già parlavo di loro come la “bella generazione” in un mio post dal titolo omonimo – non sembra esserci una grande empatia. L’alchimia è sofferta e va tutto a scapito del prodotto finito.
Il migliore in campo è Alessio Lapice, non solo attore fisico, ma anche attore di sguardo. Lo segue a ruota Filippo Scicchitano, il primo, con Scialla! (Francesco Bruni, 2011), a dare il là insieme a Franceschini (Una famiglia perfetta, Paolo Genovese, 2012) e Richelmy (Il terzo tempo, Enrico Maria Artale, 2013) alla nuova generazione di attori italiani ad anni di distanza da quella dei Germano/Scamarcio – ho citato i primi film in cui gli attori si sono fatti notare seriamente de critica e pubblico. Scicchitano, come suo solito è fresco e naturale, l’unico insieme a Lapice a padroneggiare corpo e ambiente durante la performance attoriale. Stesso discorso per Lorenzo Zurzolo che non risente del flop di Baby (Andrea De Sica, 2018-2020) e sa scrollarsi di dosso il mito del sex symbol grazie a una naturalezza della recitazione – soprattutto la modulazione vocale – che gli permette di sedurre e al tempo stesso nascondersi, di lanciare il sasso e poi nascondere la mano. Invece, Eugenio Franceschini, risulta sempre troppo impostato nella voce e nei movimenti, qui particolarmente a disagio e forse fuori ruolo – caso di miscasting? In ultimo Jacopo Olmo Antinori, viso interessante, ma personaggio macchiettistico e troppo urlato.
Il film è comunque un ottimo esempio di genere nero all’italiana, più noir che poliziesco, lontano dai commissari locali e ammuffiti e molto più vicino a una narrazione più internazionale che sta finalmente facendo capolino anche in Italia dopo aver investito come uno tsunami prima Spagna e poi Francia, Germania e Svezia. Molto riuscita la lunga sequenza finale, dove anche Franceschini riesce a giocare le sue carte migliori.
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