Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
Un uomo e, intorno a lui, il vuoto e la nebbia. Se, da un momento all’altro, e senza che ce ne accorgiamo, possiamo passare dall’essere oggetto di amore all’essere un peso di cui liberarsi, esattamente come, in un soffio, la vita ci scarica e ci consegna alla morte, allora è proprio vero che ognuno di noi è irrimediabilmente solo. Ed è proprio vero che dagli altri ci separa il nulla; e non appena smarriamo la direzione di casa, ci ritroviamo sballottati da una parte all’altra da una corrente casuale e irrispettosa, come una conchiglia in balia dei flutti, che ha perso per sempre lo scoglio natio. A quel punto è inutile cercare di tornare indietro, perché una volta giunti al punto di partenza, scopriamo che, nel frattempo, tutto è cambiato. L’ultima scena, con la salita del protagonista lungo una scala che si attorciglia intorno a una ciminiera, sembra la metafora di questa amara verità: il percorso elicoidale è il cerchio che non si richiude, è l’illusione di un ritorno che, in realtà, ci porta sempre più lontano, fino all’estremo addio.
L’obiettivo di Antonioni si fa ampio intorno ai suoi personaggi. In ogni inquadratura essi appaiono isolati, o, perlomeno, distanti gli uni dagli altri. Le unioni, anche le più intime, non durano più di un attimo, perché c’è sempre qualcosa che interviene ad interromperle. La separazione è il vero leitmotiv di quest’opera, ambientata in un paesaggio padano popolato di dossi e di fossati, di recinti e di barriere, dove l’orizzonte sembra spalancarsi solo per ingigantire il senso di disorientamento.
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