Regia di Mario Bava vedi scheda film
Pezzo di bravura di uno dei più grandi registi della storia del cinema, ingiustamente condannato all'oblio dai suoi connazionali.
Talvolta sono sufficienti i titoli di testa per capire che ci si trova di fronte a un film fuori dalla media. Sono un manifesto programmatico, che ci proietta nelle tematiche e nell'atmosfera dell'opera, prima ancora di averne visionato un fotogramma. Essere umano e manichino sono in stretta simbiosi, quasi che l'uno sia il doppelganger dell'altro. Il partire dal manichino ha una duplice simbologia: la più scontata rimanda a corpi inanimati, il titolo del resto ce lo suggerisce, Bava non lesinerà certo sul numero di cadaveri, ma anzi calcherà morbosamente la mano; secondariamente il manichino è oggetto, oltre che senza vita, anche senz'anima. Sono tutti uguali e massificati, al pari dei protagonisti che ruotano attorno all'atelier. C'è chi ruba, chi ricatta, chi è mantenuto, chi è invidioso, chi mente, chi ha la dipendenza della droga, e c'è anche chi uccide, ma è inglobato nella stessa palude torbida di tutti gli altri. Tutti egualmente spinti dal denaro e dal vizio, figure monodimensionali che non meritano compassione e non suscitano empatia. L'assassino è ridotto a poco più che pretesto per inscenare la trama: è talmente una tematica periferica, che Bava, con malizioso dispetto, ce lo rivela in maniera limpida con un indizio inequivocabile a 20 minuti dalla fine. Ma Sei donne per l'assassino ha un valore che travalica grandemente una prosaica trama gialla. Torniamo ai titoli di testa. Luci soffuse e colorate, una colonna sonora seducente: sono chiari segnali che anticipano un'opera di impronta spiccatamente estetizzante. L'equilibrio formale è di esattezza rara: a un'eleganza scenica e tecnica si affianca quello che è stato erroneamente da alcuni interpretato come un eccesso di perversione. Ma che vi è di perverso o sadico, in un'autocitazione de La maschera del demonio (l'assassinio di Nicole), o nel wellesiano piano sequenza che rivela lo spostamento del cadavere di Peggy, o ancora nella risoluzione hitchcockiana del dramma, coi due amanti diabolici che prima si baciano e poi si eliminano? Siamo dinnanzi a un esercizio di stile impareggiabile. La morte, su cui Bava indugia, non infastidisce l'occhio ma arricchisce la visione e la completa, la rende un'esperienza. E' una pellicola che inconsapevolmente genera perfezioni interne sconosciute persino all'autore: Bava, persona molto alla mano e di modi spicci, ai critici dei Cahiers du cinéma che gli chiesero conto di un eventuale tessuto connettivo fra l'insegna che ondeggia nella sequenza iniziale e il telefono che oscilla nel finale, rispose che non si ricordava nemmeno come finiva il film. Quando crei qualcosa di perfetto, non c'è nemmeno bisogno di pensare a tessuti connettivi, perché si instaurano da soli.
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