Regia di Mario Bava vedi scheda film
"Sei donne per l'assassino" è la pellicola pionieristica per eccellenza del thriller italiano; a firmarla è Mario Bava, uno dei registi italiani più visionari ed innovativi di sempre. A sorprendere, quando esce nel 1964, è la fotografia dai colori brillanti e la ferocia dell'assassino nonché la sua rappresentazione grafica e l'uso della soggettiva.
"Sei donne per l'assassino" è considerato un film prototipico del thriller all'italiana, il cosiddetto thrilling. Non è il primo giallo diretto da Mario Bava ma è sicuramente il giallo che in qualche modo pone quelli che sono i canoni rispettati del cinema thriller da quel momento in poi, soprattutto la figura dell'assassino per come questo viene rappresentato nel film, ovvero un personaggio che sfugge ad un'identificazione certa, mascherato, con la mano guantata. Un altro elemento che Bava introduce nel giallo e che da allora in avanti sarà una sorta di mantra per tutti i registi è il sadismo, la violenza con cui vengono rappresentati gli omicidi. Vero è anche il fatto che prima di questo Bava aveva diretto un altro thriller, "La ragazza che sapeva troppo", che però è molto diverso da "Sei donne per l'assassino": fin dal titolo è un giallo molto più hitchcockiano, molto più tradizionale, per certi versi più canonico. Con questo film invece spariglia quelle che sono le carte del cinema thriller, il quale non sarà più come prima.
"Sei donne per l'assassino" è un film che da un lato ha una rappresentazione realistica, persino sadica degli omicidi, dall'altro una messa in scena assolutamente surrealista, anti-realistica, con una fotografia che sembra liquida, con dei colori molto forti, molto accesi, con i tre primari che paiono scivolare sull'inquadratura e dare a tutta la rappresentazione del film una sorta di qualità fantastica. Così facendo Bava, che veniva dal periodo degli horror, si pone a metà strada tra il fantastico e il thriller realistico, in un film con una location molto interessante e indovinata: Villa Sciarra, una villa romana ai piedi del Gianicolo con una caratteristica fontana che viene inquadrata nel corso del film, la quale si presta molto bene a porre la pellicola in una sorta di altrove geografico, una villa che noi sappiamo essere a Roma ma che potrebbe situarsi in qualsiasi altra città, dandole un tocco internazionale e rendendola un lungometraggio dai contenuti e dal contesto universale. Il film ha inoltre un cast molto interessante: fra i protagonisti vi è un attore americano, Cameron Mitchell (presente in altre due pellicole del regista sanremese), che in quegli anni in Italia interpreta anche dei western (come "Minnesota Clay" di Sergio Corbucci); c'è un'attrice ungherese, Eva Bartok, dalla storia molto particolare e che fa questo film in Italia per avere un qualche riflesso hollywoodiano nella sua filmografia; nel ruolo dell'antiquario abbiamo Dante Di Paolo, molto più conosciuto per la sua esperienza come ballerino (ha ballato con tutti i grandi ballerini americani e di Hollywood) e che ha avuto anche una carriera da attore. Qui è molto efficace nel disegnare un ruolo parecchio ambiguo. Il cast presenta anche alcuni caratteristi molto ricorrenti nel cinema popolare come Franco Roussell nel ruolo del marchese Riccardo Morelli e Luciano Pigozzi (considerato il Peter Lorre italiano per la notevole somiglianza fisica e in virtù dei ruoli generalmente assegnatigli) in quello dello stilista Cesare Lazzarini.
In "Sei donne per l'assassino" Mario Bava codifica quello che è il killer del cinema thriller italiano, un assassino invariabilmente vestito con un impermeabile nero, dal volto coperto, con un cappellaccio e le mani guantate che brandiscono molto spesso un'arma bianca. Queste sono le caratteristiche che ritroveremo in moltissimi gialli italiani; d'altra parte lo stesso Dario Argento, che inizia la sua carriera di regista con "L'uccello dalle piume di cristallo", in qualche modo denuncia e denota questa eredità, questo richiamo al cinema di Mario Bava. All'epoca non è che non ci fossero dei precedenti, ma sicuramente Bava porta alle estreme conseguenze le caratteristiche di quello che era ad esempio il cinema thriller tedesco, il cosiddetto "krimi", tratto dai racconti di Edgar Wallace (non è un caso che il film in questione sia una coproduzione italo-franco-tedesca). Il regista italiano rende però il tutto molto più visionario ed estremo, come se questa violenza che spesso gli è stata rimproverata venisse stemperata da un'estetica pop, da uno sguardo d'artista, come se nei suoi film i personaggi non fossero persone in carne ed ossa, quanto dei manichini di cui noi assistiamo ai delitti, tanto che uno dei suoi film successivi si intitolerà, forse non a caso, "Cinque bambole per la Luna d'Agosto".
Mario Bava, dopo i suoi horror gotici, approccia il thriller con "La ragazza che sapeva troppo", attraversando l'evoluzione del genere in Italia: dopo "Sei donne per l'assassino", a distanza di qualche anno, gira "Reazione a catena", una pellicola molto più debitrice nei confronti di come il thriller si andava evolvendo in quel periodo anche in Italia, un film molto più violento ed estremo anche nella rappresentazione grafica degli omicidi, un film però ancora molto visionario e precursore dei tempi, per poi nel tempo contaminare il thriller con elementi più propriamente noir, come per esempio in "Cani arrabbiati", un film d'azione in cui una serie di tradizioni di genere vengono fuse in un risultato sincretico, a testimonianza della capacità che Bava aveva di innovarsi all'interno del proprio genere di appartenenza.
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