Regia di Robert Bresson vedi scheda film
Tra i grandi film di Bresson, questo è il più lineare. Il maestro francese lascia da parte tutte quelle ellissi, sottrazioni, allusioni ed elusioni che avevano caratterizzato opere come “Pickpocket” e, soprattutto, “Au Hazard Balthazar”, pervenendo ad un apologo di asciuttezza ed essenzialità insuperabili. Questa sua trasparenza rende forse l’opera in questione la più influente di Bresson sulle generazioni contemporanee. Detto questo, il montaggio e il movimento di macchina restano i privilegiati strumenti di “creazione di senso” nell’estetica bressoniana. Di più: la tempistica degli stacchi e dei carrelli è così impeccabile da generare più di una sequenza-capolavoro: l’incipit e l’epilogo, speculari nel loro sobrio simbolismo “animale”, ma anche la lunga scena dello stupro e quella straniante degli autoscontri. L’atmosfera campagnola, miserabile e desolata, è la stessa di Balthazar, così come la tendenza a soffermarsi su animali ed oggetti inanimati, trattati senza distinzione come “esseri”. Il discorso sul cristianesimo è coerente col resto del cinema di Bresson: il Male è invisibile, inevitabile, inestirpabile. Il Male si mimetizza, come un cacciatore nelle sterpaglie, per poi colpire con la forza dell’ambiguità. La violenza squarcia lo schermo con tutta la sua evidenza disturbante. Le scene di crudeltà, di prepotenza, di sopraffazione si ripetono sempre uguali a se stesse, sempre insensate, come un meccanismo ad orologeria che mai fallisce l’appuntamento. In questo tristissimo, disgraziato, fatalista racconto di formazione, la mdp di Bresson non può far altro che rimanere lì, immobile, fino a quando la Morte non avrà vinto a tavolino la sua partita.
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