Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Un film elegante, asciutto e potente, in cui le tematiche cardine della poetica di Schrader, quali la colpa, la redenzione e l’onere delle azioni passate, trovano il loro interprete ideale in un magnetico Oscar Isaac, antieroe moderno il cui stato di alienazione è l’emblema della decadenza dell’America contemporanea.
78a MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA – Selezione ufficiale, in concorso | Dopo più di un decennio segnato da pellicole poco fortunate sia dal punto di vista commerciale che di consenso critico, funestate da traversie produttive o penalizzate da una distribuzione piuttosto limitata, Paul Schrader, vecchia gloria del cinema americano degli anni ‘70 e ‘80, era tornato in gran forma quattro anni fa con lo splendido First Reformed, austero e rigoroso compendio della sua poetica che faceva interfacciare le riflessioni predilette del grande autore americano con alcune delle tematiche più dibattute della contemporaneità. Un’opera complessa e stratificata, con la quale Il collezionista di carte presenta più di un’analogia e forma una sorta di dittico: se, infatti, nel film con protagonista Ethan Hawke i frequenti accenni alla preoccupante catastrofe ambientale a cui sta andando incontro il nostro Pianeta erano un pretesto per raccontare la decadenza dell’Occidente, qui i continui riferimenti al conflitto bellico tra l’Iraq e gli Stati Uniti (2003-2011) permettono al regista di American Gigolò di misurarsi con una delle questioni più oscure e spinose della storia recente degli Usa. Fondamentale, in tal senso, la maniera limpida e cristallina in cui vengono gradualmente rivelati dettagli importanti del trascorso del protagonista: archetipico antieroe scorsesiano traslato nel contesto del nuovo millennio, diretto discendente di quella Nuova Hollywood di cui lo stesso Schrader è stato una figura cruciale soprattutto in veste di sceneggiatore, William Tell (questo il suo nome) è poco più che un fantasma, un uomo dilaniato dai sensi di colpa e schiacciato dall’insostenibile peso delle atrocità commesse, indirizzatosi verso un percorso di redenzione che vede nella violenza un doloroso quanto inevitabile passaggio obbligato funzionale all’espiazione delle proprie colpe. La sua totale dedizione al gioco d’azzardo, in questo caso, non rappresenta tanto una forma di dipendenza, quanto piuttosto una volontà di isolarsi dal mondo circostante per rinchiudersi in un microcosmo razionale e manipolabile, di cui può avere il pieno controllo (da qui la sua strategia di contare le carte a cui fa riferimento il titolo originale). Una condizione esistenziale resa perfettamente soprattutto attraverso l’atmosfera asettica degli ambienti chiusi, illuminati da una fredda luce artificiale che restituisce a pieno quella sensazione di straziante solitudine che da individuale diviene collettiva, specchio di un malessere diffuso ed emblema della decadenza morale di un Paese mestamente alla deriva, privo di principi morali e oramai lontano da quell’ideale di innocenza e invulnerabilità che ha propagandato per decenni. Senza sollevare il singolo dalle proprie responsabilità individuali, il regista muove una critica feroce nei confronti delle istituzioni, colpevoli di aver abbandonato a sé stessi i propri reduci per occultare le nefandezze compiute da un sistema marcio fino al midollo. Molto ben calibrata la struttura narrativa, dove nessun elemento è inserito in maniera casuale, così come risulta perfetta la gestione del ritmo, caratterizzato da una prima parte volutamente lenta e compassata, propedeutica a far immergere lo spettatore nell’alienante ripetitività della vita all’interno delle sale da gioco, seguita da una seconda parte in cui il racconto cresce progressivamente, aumentando sempre di più la dose di coinvolgimento fino a culminare in un terzo atto disturbante e potentissimo. Anche il cast appare in forma smagliante, a partire da un Oscar Isaac, che, con la sua recitazione sommessa e il suo sguardo perso nel vuoto, restituisce perfettamente il tormento interiore del suo personaggio e offre una grandissima prova attoriale, valorizzata ancora di più dalle convincenti interpretazioni del resto del cast, da una brava Tiffany Haddish al sempre incisivo Willem Dafoe, senza dimenticare il giovane Tye Sheridan (già protagonista di Ready Player One di Spielberg), alle prese con un personaggio vittima della sua sfrontatezza e del suo incontenibile desiderio di vendetta. Si possono tranquillamente perdonare, quindi, alcune sequenze che indugiano fin troppo sugli ambienti del casinò, così come qualche scena dialogata eccessivamente verbosa, dal momento che si tratta di piccole imperfezioni, assai poco incisive nel risultato complessivo di un’opera solida, elegante e densa di contenuti, che ha il non trascurabile merito di aver dimostrato che, nonostante passi falsi, fallimenti e difficoltà d’ogni sorta, la vena artistica di Paul Schrader (e, per estensione, di molti altri suoi colleghi appartenenti alla stessa generazione) è tutt’altro che giunta al capolinea, al contrario è ancora fervida e pulsante, capace di guardare al presente con spirito critico e attraverso una visione del cinema sicuramente d’altri tempi, ma mai stantia o superata. Voto 8
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