Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Spunti di grande cinema per una storia di redenzione mancata, pellicola ambiziosa a cui purtroppo manca la carta vincente alla mano finale.
Intorno all’ignominiosa vicenda del programma di detenzione ed interrogatorio della CIA sotto la presidenza Bush, programma avviato ed applicato sempre più capillarmente e intensamente in strutture ufficiali e non a seguito degli attentati dell’11 settembre, gravitano, come satelliti, almeno 4 pellicole: “Zero Dark Thirty” la storia, “The report” la denuncia, “L’uomo che fissa le capre” la satira (grottesca, demenziale, ma non troppo lontano dalla realtà, purtroppo) ed infine “Il collezionista di carte” il dramma esistenziale.
Accorpato agli altri tre, ecco che il film uscito nelle sale nel 2021 e che vede tra i produttori Martin Scorsese, diventa allegoricamente il quarto seme che va a completare il mazzo, ogni seme con le sue carte, il suo approfondimento, il suo significato, il suo stile, la sua angolazione sulla storia, sulla partita in cui tutti escono, ovviamente, sconfitti e con le mani imbrattate di sangue; una storia che mette l’America e gli americani allo specchio, una nazione che si scopre carnefice e brutale tanto quanto il suo nemico, tanto odiato quanto imitato, emulato. In questa faccenda gli Stati Uniti sono scesi fin troppo allo stesso livello scabroso dei loro antagonisti, delegittimando di fatto se stessi; al governo a stelle e strisce va comunque riconosciuto almeno il merito di permettere che si dia voce alla denuncia, resa globalmente pubblica attraverso inchieste, giornalistiche e su banchi di tribunali, prima e resa ancora più amplificata e rimarcata dal cinema poi, quasi a calcare la mano non per accanimento ma quale atto dovuto. Il fatto che tali delitti commessi da un governo di tale portata vengano consegnati comunque all’opinione pubblica e al giudizio del tribunale della storia, è un atto di elevata libertà democratica, anche se a pagare sono purtroppo sempre le mele e mai i cesti.
Ne “Il collezionista di carte” l’angolazione narrativa scelta è intima, introspettiva, si va di sottrazione, è più un’implosione delle emozioni e delle azioni. È un cinema di attesa, di silenzi, di pensieri, gesti, espressioni, sguardi.
Scritto e diretto da Paul Shrader, è nella sceneggiatura che risiedevano tutte le aspettative, data la sua mirabile carriera in questa veste.
La pellicola scorre come una partita a poker, le carte si tengono ben coperte, ci si nasconde, si bluffa, si cerca di confondere e per tre quarti di partita/film il gioco regge.
Ci sono momenti di grande cinema, la pellicola è di spessore, Oscar Isaac è ben calato nel personaggio (meno chi gli sta intorno), il tempo è ben scandito, il soggetto è importante e si arricchisce progressivamente. Solo che al momento in cui ci si sarebbe aspettato l’all-in, è mancata la carta vincente, lo spettatore resta spiazzato e deluso come i concorrenti seduti allo stesso tavolo del protagonista nella partita finale delle World Series.
Al momento di affondare il colpo, di dare un senso alla parabola di quest’uomo William Tillich, tradito dalla sua nazione, da quel sistema che prima lo ha deformato e poi giudicato, segnato nel corpo e nello spirito da ciò che lui stesso è diventato, il film si affloscia come un dolce venuto male, diventa scialbo, insulso, stucchevole e smielato, con un epilogo che va a vanificare quanto di elevato si cercava di costruire.
La pellicola rimette sullo stesso piano la vittima e il suo carnefice, evidenziando come in realtà non ci sono vittime ma solo uomini responsabili delle proprie azioni; tutto corretto, solo che il tutto stride con l’evoluzione e l’approfondimento del personaggio fino a quel momento.
A un certo punto sembra che Shrader abbia perso le redini della sua sceneggiatura, peccato, ma capita anche ai più grandi.
Interessantissimi gli spaccati sulle torture e le condizioni in quelle strutture penitenziarie; alcune immagini sembrano di repertorio, originali, e probabilmente lo sono.
Un piccolo appunto sul titolo scelto per la distribuzione nel territorio nostrano: incomprensibile la scelta, il titolo originale è “The card counter” ossia “Il contatore di carte” riferendosi alla straordinaria abilità del protagonista di tenere conto delle carte uscite e di quelle in gioco in una partita di poker, abilità che lo rende praticamente imbattibile; dunque di collezionisti o collezioni non vi è la benché minima traccia, solo un insignificante titolo con un presunto effetto di richiamo.
I personaggi interpretati da Tiffany Haddish e William Defoe sono talmente stereotipati che ciò riflette inevitabilmente sulla loro recitazione; un po’ più complesso il personaggio di Tye Sheridan ma si smarrisce nella parte finale insieme a tutto il resto.
Tenuto conto della perdita di consistenza dell’ultimo quarto, la pellicola ha un suo valore e una sua importanza sia stilistica che di contenuti; senza essere platealmente severo nell’esprimere giudizi, il film condanna i cesti e parzialmente assolve le mele, sì strumenti usati per perpetrare un’inutile violenza, ma anche uomini con una coscienza e la facoltà di decidere di non andare oltre.
A volte purtroppo capita di restare terribilmente affascinati da quel male contro cui si combatte...l'importante è che alla fine della partita si urli in trionfo: "U.S.A., U.S.A.".
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