Regia di Antonio Bido vedi scheda film
Opera minore nel panorama del thriller all’italiana anni 70 questo film di Antonio Bido, decennio glorioso in cui i film si affastellavano l’uno sull’altro contaminandosi a vicenda e contribuendo a formare nell’immaginario collettivo cinematografico quello stile che ci avrebbe consegnato alla storia del cinema come maestri del genere, spargendo quei semi di sangue che tanto hanno ispirato i giovani cineasti delle ultime generazioni. Gli alberi possenti hanno bisogno del sottobosco che li nutra, così questo Solamente nero risulta debitore e umile portatore d’acqua ai più grandi predecessori, “La casa dalle finestre che ridono” di Pupi Avati in primis avendo come denominatore comune Lino Capolicchio e naturalmente il “Profondo Rosso” di Dario Argento. Bido del primo, oltre all’attore principale, cerca di mutuarne le atmosfere malsane e ambigue ambientando la storia nella laguna veneta, Murano per la precisione, dove Avati invece prediligeva il monotono e piatto paesaggio del Polesine. Umidità e follia, segreti inconfessabili di una tranquilla comunità di brava gente, la fede che fallisce il suo scopo coprendo orrori e morte. C’è molto di Mastro Avati così come nel meccanismo narrativo il Solamente Nero è debitore a Dario Argento. Il testimone, persona normale catapultata in una storia di morte che deve risolvere il caso; il “vedere” è la ragione della colpa, movente degli omicidi e soluzione insieme; l’infanzia è vista come incubatrice di traumi e follia. Molti degli stilemi argentini sono riportati pedissequamente senza rielaborazione, limitandosi a esibire un clichè di conclamato successo. Il pedinamento in soggettiva, la meccanica degli omicidi che privilegiano l’arma bianca e che dilatano il deflagrare della violenza, contenuta in realtà, dopo un sadico gioco al gatto col topo con la vittima di turno e il colpo di scena finale, in questo caso del tutto scontato, riconducono la visione al sottobosco del già visto alimentando il mito del giallo all’italiana ma senza offrire in realtà nulla di nuovo. La differenza in questo caso la fa il “manico”, la regia non ispirata messa al cospetto della latitanza di idee valide, tende a allentare le maglie del ritmo e i troppi tempi morti conditi da dialoghi un po’ sopra le righe sembrano condurre il senso dell’operazione verso un’onorevole durata commerciale. Lino Capolicchio, attore di razza è sprecato in una parte, quella del professore stressato in cerca di pace, scritta malino e poco sentita. Mentre Stefania Casini mostra un nudo quasi integrale di tutto rispetto. Nota positiva, l’incontro in sala prima della proiezione del film con l’interprete principale, Lino Capolicchio, gentile e disponibile, un vero ammalato di cinema e un personaggio istrionico del tutto consapevole del suo ruolo d’attore, uno sguardo e un carisma ancora oggi in grado di inchiodare alla poltrona mentre la memoria storica del cinema che fu veniva scaricata con passione sulla platea. Un grande.
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