Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film
Cos’è il sesto senso che rende difficile e infelice la vita di Cole Sear, nove anni fatti di soprassalti, dolori, orrori improvvisi? È una sorta di “luccicanza” (lo “shining” posseduto dal piccolo Danny nel film di Kubrick). "Voglio dirti il mio segreto", dice Cole al dottor Crowe, lo psicologo che cerca di aiutarlo. "Vedo la gente morta". Vede gli impiccati giustiziati duecento anni prima in quella che è diventata la sua scuola; vede una donna con metà della faccia squarciata; vede una bambina appena morta di tumore che, come tutti gli altri, sembra chiedergli qualcosa. I morti gli chiedono giustizia, verità, gli chiedono di essere liberati da un limbo di infelicità terrena. E lo psicologo, ancora traumatizzato dall’assalto subito un anno prima da un suo antico paziente che non era riuscito ad aiutare, comincia a credergli. È un horror curioso, inquietante e insinuante, questo “Il sesto senso”, scritto e diretto da M. Night Shyamalan, giovane autore di origine indiana che ha studiato cinema a New York e che ha le idee molto chiare sulla costruzione e la “tenuta” della suspense cinematografica e non si lascia abbindolare dal terrore fatto di effetti speciali. In realtà, nel film, a parte l’incipit (l’attentato subito dal dottor Crowe), per circa 40 minuti non succede nulla: Bruce Willis e l’undicenne Haley Joel Osment camminano e parlano, e, intorno, un’angoscia palpabile. Poi, cominciano a materializzarsi le apparizioni, concrete e quotidiane, tra le pareti di casa, ai piedi del letto, vicino al frigorifero: un mondo che esiste intrecciato al nostro, senza, per lo più, lasciarsi scorgere. Più che l’orrore, sono il dolore e la solitudine a scorrere nel film di Shyamalan, quella solitudine evocata all’inizio dal paziente pazzo, che guarda il dottore e sua moglie e chiede: "Sapete perché uno ha paura quando è solo? Io lo so". Un brivido di freddo corre per tutto il film, il pomo rosso della porta di una cantina si stampa sempre in primo piano negli occhi del dottore.
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