Regia di Pedro Costa vedi scheda film
Nel quartiere degradato di Fonthainas, alla periferia di Lisbona, intorno alla piccola figura di un bambino di pochi giorni, si intrecciano le esistenze disperate di una comunità creola. Più volte rischierà di morire il neonato. Prima per mano di Tina (Mariya Lipkina), la madre, che tenterà il suicidio con il gas. Poi stando con il padre (Nuno Vaz), che con il piccolo in braccio vagherà per i vicoli del quartiere elemosinando latte da bere e cibo da mangiare. Poi ci sono Eduarda (Isabel Ruth), un’infermiera che si prende cura del bambino dopo che è stato portato urgentemente all’ospedale, e Clotilde (Vanda Duarte), la sorella di Tina, che cercherà di sottrarre il bambino al padre che per la troppa disperazione più volte ha tentato di venderlo.
“Ossos” di Pedro Costa rappresenta un tassello emblematico del “Novo Cinema” Portoghese, per il taglio etnografico che accompagna la rappresentazione filmica del degrado urbano e la naturalezza con cui si smarca dalle esigenze “modaiole”. Un film contrassegnato da una cappa di inespugnabile tristezza, greve per timbro registico ed estremo per coerenza formale. Un’opera che può essere definita “bressoniana” senza aver paura di abusare del termine. Come il maestro francese, fa emergere la stessa attitudine a spogliare ogni singola inquadratura di qualsiasi orpello superfluo e di particolareggiare ogni singolo movimento di macchina. Sempre procedendo con lentezza e sempre rimanendo ancorati al qui ed ora dei protagonisti. Perché il dopo per loro rappresenta un qualcosa di indefinito, una voragine spaventosa di cui non si riesce bene ad intravedere il fondo. Per il rigore etico e l’integralismo estetico impresso allo sviluppo narrativo, “Ossos” annichilisce lo sguardo ad ogni singola inquadratura, facendo della messinscena una lenta liturgia del dolore. Non c’è compiacimento in questo dato stilistico, non è rinvenibile un ricatto morale in questa secca esposizione del dolore, ma solo l’esigenza di confrontarsi attraverso il cinema con una constatazione empirica inopinabile, ovvero, che il male di vivere ha una sua precisa consistenza sociale, con un volto, dei caratteri e dei corpi ben delineati e riconoscibili. A recitare, infatti, non sono degli attori, ma la loro comprovata inabilità alla vita, a muoverli non è uno scopo conosciuto, ma una precarietà esistenziale vissuta con inconsapevole istintività. Il disamore per la vita va oltre la loro stessa volontà a procedere lungo questa strada, la compassione si è prosciugata nell’impoverimento della loro innocenza. Non possono che innalzare le vestigie di un’umanità allo sbando, indifesa, debole, ferina. Perché stazionano perennemente sull’orlo di un baratro e perché la vita di un bambino è spesso messa in forte pericolo, sono cose a cui loro non saprebbero dare una spiegazione, succedono è basta, invariabilmente, come un dato di fatto che vegeta imperituro in un posto marginalizzato come la periferia di Lisbona. Un non luogo dove oziano degrado e rassegnazione, insane tentazioni e spirito di sopravvivenza.
I corpi e i volti solcati dalla miseria significano più delle parole in questo desolante quadro esistenziale e la regia di Pedro Costa precisa questa strana specie di fatalismo arrendevole senza arretrare neanche di un millimetro nella sua fredda esposizione. Ad essere il vero motore del film non è tanto un intreccio narrativo ben delineato nei suoi caratteri estetici e formali, ma la secchezza stilistica che veste interamente la rappresentazione filmica, il modo certosino con cui la regia si cura di abortire sul nascere ogni eccedenza spettacolarizzante. Come suggerisce già il titolo, ogni aspetto di questo film è ricondotto ad un’essenzialità prorompente. Gli ambienti sono disadorni, le relazioni umane non riflettono empatie, i dialoghi seguono le strade sicure della laconicità, finanche i colori sembrano spogliati della loro essenza cromatica. Detto altrimenti, l’intera resa poetica che il film ha inteso far emergere è tutta contenuta nella calcolata scarnificazione dell’oggetto narrante. Nei labirinti degradati e degradanti della baraccopoli di Fonthainas, Pedro Costa traccia dunque le forme somatiche di un’umanità disperata che ha disimparato a godere finanche dei piaceri più semplici che la vita può offrire, con il coraggio di praticare un cinema ostico perché puro e puro perché condotto fino al limite consentito dalla sua ricercata essenzialità stilistica.
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