FEFF 22 - HIROBUMI WATANABE
In un luogo isolato in aperta campagna, un uomo di corporatura robusta manda avanti un porcile stipato di grugnanti maiali affamati ed indolenti, tutti protesi alla ricerca di una propria immediata soddisfazione corporale che, in quanto animali, solo la presenza di cibo e di un essere vivente della medesima specie, ma di sesso opposto, riescono a soddisfare nell'immediatezza quasi spudorata di un atto che sazia e placa alla perfezione istinti e desideri.
E' il capo, ma la circostanza non lo esime dal doversi occupare di una pulizia costante e rigorosa dell'allevamento, spalando escrementi che con rituale costanza gli animali producono nell'orgia vivente che ne scandisce le giornate.
Oltre ai porci, l'uomo si prende cura di un'anziana nonna, che vediamo concentrata in ripetute occasioni nel pasto che, a fatica dati i probabili problemi di dentatura che l'affliggono, ella tenta di ingurgitare come una impresa dai risvolti solenni ed ufficiali. Mai un cenno tra i due, tanto meno un dialogo, estraneo completamente nella pellicola che dà invece spazio all'urlo perseverante e continuo dei maiali rinchiusi.
Un verso che sembra un lamento, ma anche un volgare gesto di sollievo, risultato di una vita all'ingrasso che li conduce ad un destino per loro fortuna ignoto fino alla fine.
La sera l'uomo si libera della dentiera che lo assiste pur nella giovinezza presunta della sua età anagrafica ignota, rendendolo un essere vivente digrignante non dissimile ai maiali che riposano nel recinto poco distante dalla sua dimora.
Ma Watanabe, che interpreta il ruolo dell'impegnatissimo ma taciturno allevatore, c'è o ci fa? Verrebbe da chiedersi studiandolo dalle immagini che ci provengono dal film e senza voler ancora approfondire utilizzando materiale di repertorio o interviste.
La vista dell'allevamento fa pensare diverse cose: non ultimo la nota frase "Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni dono più uguali di altri", dal celebre passo all'interno dell'altrettanto noto romanzo di George Orwell La fattoria degli animali.
Watanabe rende ciclico, come pure nel film successivo "I'm really good" , il routinario scandire del tempo, che scorre con ripetersi ciclico delle mansioni che l'allevamento rende indispensabili per un corretto svolgersi di un ciclo di vita che diviene anche un processo commerciale che mai ci verrà mostrato.
E la macchina si tuffa sull'orda affamata, accasciata indolentemente in quel terreno umido e odoroso di umori per molti insopportabili, universo di vita di un uomo che non ha più bisogno di esprimersi per comunicare o farsi comprendere.
Ma Watanabe non si accontenta e, in una scena in cui il protagonista si reca al cinema, tra una platea completamente deserta ove appare anche qui il re di un universo tutto personale e privato, l'uomo finisce per addormentarsi nel guardare un film che sarà non solo un prodotto dello stesso Watanabe, bensì proprio il film immediatamente successivo a questo Cry, ovvero il già citato I'm really good, secondo un paradosso temporale geniale e dissacrante in grado di suggerire ulteriori sospetti sulla sottile attività di presa per i fondelli nei riguardi dello spettatore.
Il resto è tutta ciclicità di eventi, che in natura scandisce il trascorrere del tempo ben meglio che un orologio, con la macchina che tallona il nostro uomo in perenne attività, filmato in un banco e nero abbagliante stilisticamente irresistibile.
Se anche ci stesse sfottendo, Watanabe riesce a farlo con ironia e una classe da cineasta ispirato che conosce i maestri, e sa rielaborarne l'espressività di narrazione.
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