Regia di Fred Cavayé vedi scheda film
La fortuna non dura per sempre e i rovesci della medaglia sono sempre dietro l’angolo. Così, anche le carriere di successo possono frantumarsi in mille pezzi per colpa di fattori esterni non governabili, quelle che sembrano essere occasioni imperdibili nascondono insidie pronte a uscire allo scoperto improvvisamente e le idee perseguite per risolvere problemi indifferibili - estromettendo di buon grado le regole del buon senso - raramente portano i risultati sperati o comunque sia qualcosa di buono.
In ogni caso, in qualunque delle circostanze accennate, il fattore umano è destinato a emergere, facendo la differenza.
Usufruendo di un’ambientazione storica di assoluta affidabilità, Addio, Signor Haffman guarda perlopiù altrove, ossia agli esseri umani, a come reagiscono quando si ritrovano con le spalle al muro, tra avversità e ripercussioni, a quei difetti e a quelle virtù che creano uno scarto inappellabile nel giudizio, dividendo chi merita una nuova occasione da chi ha terminato i jolly disponibili, per un discorso morale dal significativo valore.
Parigi, 1941. Con l’occupazione tedesca, Joseph Haffman (Daniel Auteui – Niente da nascondere, La belle époque), un ebreo dotato di un talento straordinario nella lavorazione dei gioielli, è obbligato a cedere l’attività al suo aiutante Francois Mercier (Gilles Lellouche – Piccole bugie tra amici, C’est la vie: Prendila come viene), così da fuggire con la famiglia.
Purtroppo per lui, quando finalmente si accinge a lasciare Parigi, è ormai troppo tardi, dovendo dunque cambiare i progetti e nascondersi nello scantinato di quella che era la sua dimora. Comincia quindi una prolungata convivenza con Francois e sua moglie Blanche (Sara Giraudeau – Petit paysan, Le Bureau – Sotto copertura), una coppia alla disperata ricerca di un figlio che tarda ad arrivare.
Nonostante i sacrifici e la buona volontà dei tre contraenti, con il tempo le difficoltà cominceranno a farsi sentire, fino a diventare incombenti quando Junger (Nikolai Kinski – Vikings: Valhalla, Yves Saint Laurent), un nazista con la passione per i gioielli, costringerà Francois a intraprendere iniziative azzardate, che condurranno a un’inevitabile e dolorosa resa dei conti.
Addio, Signor Haffman nasce come adattamento dell’omonima e acclamata opera teatrale di Jean-Philippe Daguerre, dalla quale preleva le coordinate principali apportando poi delle variazioni. Diretto con lungimiranza da Fred Cavayé (Anything for her, Point Blank) e scritto dal regista con Sarah Kaminsky, è fondamentalmente un melodramma in grado di offrire forti emozioni, senza mai perdere il controllo del materiale che maneggia, in virtù di un senso della misura che, in casi del genere, è merce rara.
Racchiuso in gran parte all’interno di un unico spazio chiuso (fatto che l’emergenza legata al Covid, emersa durante le riprese, ha implementato per ovvi motivi congiunturali, rivelandosi una manna dal cielo non preventivata), si avvale di un inquadramento storico evidentemente utile alla causa, per poi sviscerare un pacchetto di vicende personali che prendono/conquistano campo gradualmente.
Dunque, tra silenzi che celano pulsioni salienti e conseguenti azioni che si fanno agguantare senza bisogno di addurre particolari spiegazioni aggiuntive, gli stati d’animo si fanno cogliere come frutti prelibati ormai pronti per essere raccolti, assaporati e assimilati, con una messa a fuoco scrupolosa e prosperosa che sfodera, senza scadere in alcuna forzatura, decisioni dolorose e docce gelate, diritti negati e speranze disilluse, mancanze/defezioni che pesano come macigni e segreti inconfessabili, desideri e apprensioni, equilibri fragili e ruoli scomodi.
Così, tra scosse puntuali e sostegni massicci, accorgimenti azzeccati e una dedizione totale, carte coperte e un’esposizione che, pur chiedendo allo spettatore di formulare opinioni in continuo aggiornamento, mantiene una lodevole chiarezza, Addio, Signor Haffman partorisce una full immersion che individua nei tre protagonisti, descritti con meravigliosa puntualità, una serie di appigli mutevoli e polivalenti, impreziositi da altrettante interpretazioni.
Detto che si spalleggiano con efficacia all’interno di una prossemica calibrata, alternandosi tra la prima linea e le retrovie, Daniel Auteuil denota una rigidità tipica di chi deve stare alla finestra, Gilles Lellouche trasmette insicurezze ataviche insite nella natura umana, mentre Sara Giraudeau è la vera gemma preziosa che lega il filo del discorso, conquistando la platea attraverso un apporto emotivo che scorre lieve, travolge in più occasioni e finisce per elevare l’intera opera.
In definitiva, Addio, Signor Haffman è un lavoro lucido e avveduto, forse un po’ accademico nella forma ma contestualmente coinvolgente per il trasporto che genera e solido per i fondamentali su cui può fare affidamento. Un film nel quale tutti i parametri viaggiano all’unisono, tra crepe e scanalature, triangolazioni e ambiguità, significati peculiari e universali, con marcature strette e pochi/decisivi scostamenti che risultano esemplari per collocamento ed enunciazione, per una road map palmo a palmo coerente e compatta, che esce alla distanza culminando in un capolinea sussultante, frutto di un crescendo che lascia letteralmente senza fiato.
Penetrante ed esauriente, trasparente e traspirante.
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