Regia di Gianfranco De Bosio vedi scheda film
Un bel film sulla resistenza. Leggendo a riguardo, parrebbe che sia stato uno dei primi casi (si era nel ’63) in cui si mostrava la realtà delle varie anime della Resistenza: e senza partigianerie, con un’obiettività storiografica lodevole. Moderati e democratici, divisi ma uniti contro il nemico maggiore.
Realistica è anche la sottolineatura sulla partecipazione clandestina del clero, che contraddice certe visioni erronee, che tacciano la Chiesa di collaborazionismo acritico con il fascismo. Il collaborazionismo, colpevole, ci fu: ma che non fu certo granitico, e fu avversato soprattutto nei centri più in disparte, e perfino ai vertici (ai tempi della Resistenza), sebbene dosato caso per caso, e spesso con eccessiva moderazione.
Splendida Venezia, nella sua eccezionalità acquatica, e non potrebbe essere altrimenti.
Il film parzialmente autobiografico di De Bosio ha altri due meriti. Il primo è celebrare un eroe partigiano, che è stato eroico proprio perché ha agito in piena indipendenza di coscienza, rifiutando ogni compromesso al ribasso, rischiando in prima persona: e infatti ci è morto Renato, pseudonimo di Otello Pighin. L’assenza di prudenza nell’uso della violenza, l’individualismo spericolato e irresponsabile assurge qui a ciò che è stato realmente: un esempio. Infatti egli era uno dei tanti “terroristi” di cui è stata costellata la Resistenza, così come la storia in genarle. Esempi di commuovente contributo per la giustizia e il bene comune, disposti al martirio, contro nemici pubblici (lì i nazifascisti), che erano assolutamente indifendibili, alla luce dei diritti umani, almeno.
Il secondo merito è quello di descrivere efficacemente la pratica del terrorismo. Ulteriore pregio: il terrorismo in Italia sarebbe esploso anno dopo, dunque non si cavalcava l’onda di una moda così inevitabilmente pruriginosa; anzi, si era già da tanti anni nell’illusione di tranquillità vincente del boom. La pratica del terrorismo, per quanto odiosa possa apparire ed essere, può avere una sua giustificabilità per legittima difesa, nei casi palesi e dimostrabili di offesa ai diritti umani, come quella del fascismo prima e dell’occupazione nazista poi furono certamente (e chi lo dice qui è un pacifista, che comunque non ritiene quelle violente le strade migliori, ma solo quelle non violente, all’insegna però del coraggio della testimonianza pagata con i costi del proprio impegno dichiarato in prima linea). Comunque, l’ansia dell’atto violento; i rischi inenarrabili che si corrono, in termini di morte e tortura; i timori per l’approssimarsi di tali ripercussioni; l’orrore di un nemico che ha sì il potere legale (ma preso con la forza e quindi non solo illegittimo, ma anche criminale), ma non quello legittimo, morale, basato sul libero consenso razionale della maggioranza in un’opinione pubblica informata in modo serio e imparziale, nonché costretto alla rivedibilità di libere elezioni basate sulla libera critica democratica. In quest’ultimo senso, il potere non è sempre buono: ma, quando è cattivo, è da rovesciarsi, come insegnò Locke già nel ‘600.
Ottimo il cast, in parti drammatiche e difficili: mai appesantito dalla retorica, il cui rischio era dietro l’angolo ad ogni piè sospinto. Come sempre, grandissimo Volontè che, lì giovane, giostra una parte profondissima già con l’autorevolezza del vecchio esperto.
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