Regia di Jean-Marie Straub, Danièle Huillet vedi scheda film
Per oltre quarant’anni, Danièle Huillet e Jean-Marie Straub sono stati fra i pochissimi a praticare un cinema di ricerca, e insieme hanno segnato pagine fondamentali della filmografia europea d’autore.
“Sicilia!” passato dal festival di Cannes del 1999, è una di questa straordinarie pagine (probabilmente fra le migliori di tutta la loro intensa attività).
Liberamente tratto dal libro “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini (che i due registi avevano già usato in precedenza per una riduzione fatta per le scene teatrali allestita a Buti nel pisano) è in effetti – e lo ribadisco con forza - uno dei titoli più significativi della produzione dei due cineasti.
Procedendo per blocchi narrativi, trasalimenti e incontri, Huillet e Straub si concentrano soprattutto sulla parte centrale dell’opera dello scrittore per raccontare l’intenso percorso del suo protagonista, che dopo tanti anni di assenza passati al nord, torna a confrontarsi con la sua terra natia.
Il film è sviluppato come una cavalcata nel tempo fatta di memorie e di confronti, poetica nella sua struttura narrativa piena di facce, di cose e di indimenticabili paesaggi spesso feriti e fortemente snaturati, ma al tempo stesso anche dura come una requisitoria, che intende essere di fatto una presa di coscienza – individuale e collettiva – che non più illusioni, e dove i personaggi che incontriamo per rendere il tutto ancora, più asciutto e scabro, quasi didascalico, non vengono indicati con i loro nomi propri, ma semplicemente con quello del ruolo che rappresentano e interpretano (la madre, il figlio) o delle professioni che esercitano (venditore di arance, arrotino, poliziotto).
Se con il suo libro scritto negli anni del fascismo Vittorini voleva esprimere per metafora una tensione al rinnovamento, con la loro pellicola i due registi ne perpetuano il senso, lo rendono profondamente attuale, gli restituiscono il valore profondo del paradosso provocatorio, ed è proprio per ottenere questo che optano per l’atemporalità (nel senso che non indicano una datazione certa) che sviluppano di conseguenza, vestendo gli attori con abiti datati, ma facendoli muovere su un sfondo contemporaneo molto efficace per rendere palese il loro obiettivo.
Quello di Huillet e Straub si conferma così anche in questo caso, come un cinema davvero “altro”, anticommerciale, che non si pone il problema della competizione, ma segue la sua strada anche didattica che rifiuta l’omologazione e cerca invece con sincerità assoluta, un diverso rapporto anche con il pubblico, che non considera un interlocutore passivo da adescare o stordire con effetti speciali o balletti vari, ma bensì un a controparte attiva, capace di capire, di comprendere, di mettersi in gioco in prima persona e di riappropriarsi del suo ruolo pensante.
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